Amministratori senza deleghe e falso in bilancio

Amministratori senza deleghe e falso in bilancio

Il sistema delle responsabilità degli amministratori è articolato, graduato a seconda del ruolo in realtà svolto nell’organizzazione societaria

Nella vita di una società sono gli organi delegati ad operare ed agire acquisendo, per tal motivo, piena e completa conoscenza delle dinamiche e delle scelte aziendali.
L’art. 2392, primo comma, c.c., pur richiamando la responsabilità solidale degli amministratori, ne limita l’incidenza ai casi in cui si tratti di funzioni attribuite ad uno o più amministratori o di attribuzioni del comitato esecutivo. Venendo meno l’obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, gli amministratori sono tenuti al rispetto di obblighi specifici, quali sono quelli richiamati dallo stesso art. 2392, secondo comma, c.c., quelli previsti in punto di interesse degli amministratori e quelli individuati nell’art. 2086 c.c.
Nella qualificazione della responsabilità degli amministratori, inoltre, assume rilievo la circostanza che la legge impone loro di agire con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze, così da garantire che le scelte attuate dagli amministratori siano informate, meditate e basate sulle rispettive conoscenze. Ai fini della delimitazione delle responsabilità, ciò implica che occorre considerare, oltre alle caratteristiche dell’attività di impresa, le tipologie di incarichi affidati ai singoli amministratori e le competenze proprie di ciascun amministratore determinate rispetto all’operazione, alla delibera, all’affare concretamente posti in essere.
L’assunzione di responsabilità si radica a partire dal momento dell’assunzione della carica e, in linea di principio, non ha effetto retroattivo.
L’amministratore assente dalla seduta consiliare che ha assunto la scelta pregiudizievole, stante il suo obbligo di agire in modo informato, deve comunque attivarsi per impedire l’atto dannoso o per attenuarne le conseguenze.
La crescente ampiezza delle prerogative e delle funzioni riconosciute al consiglio di amministrazione delle società di capitali ha costituito terreno fertile per il proliferare di una graduale spinta di separazione tra l’attività gestionale propriamente intesa e quella di controllo sulla rispondenza della gestione dell’impresa ai principi di corretta e buona amministrazione, attuata attraverso il noto strumento della c.d. delega di funzioni.
Con la riforma del 2003 la materia è stata oggetto di un profondo restyling normativo, mirato a definire più chiaramente rispetto al passato le responsabilità proprie dei consiglieri non esecutivi rispetto a quelle degli amministratori delegati.
In considerazione della prassi e dell’autonomia riconosciuta alle società nell’organizzazione del proprio modello di governo, in presenza di un atto di delega sufficientemente ampio, gli amministratori deleganti rimangono sostanzialmente spogliati di qualunque autonoma facoltà operativa, residuando in capo ad essi la sola prerogativa di valutare il generale andamento della gestione (art. 2381 c.c.).
Il concetto centrale e decisivo, che sintetizza i rapporti tra management e board, e che consente di comprendere appieno e con chiarezza la reale posizione dei consiglieri privi di deleghe rispetto alle operazioni e iniziative assunte dagli amministratori delegati, è quello di “asimmetria informativa”.
La scissione tra la titolarità del potere di amministrare l’impresa e il suo concreto esercizio, infatti, ha come naturale conseguenza il fatto che i consiglieri non operativi possono venire in possesso delle informazioni utili e necessarie per il corretto agire imprenditoriale solo nella misura in cui i manager adempiano correttamente e in modo trasparente e completo agli obblighi di reportinq gravanti su di essi, che l’ordinamento ha tentato di consolidare attraverso la collegialità tipica della sede consiliare.
Pare superfluo rilevare che tale squilibrio conoscitivo dei fatti di gestione non è riconducibile a profili di negligenza (o, peggio, di dolo da parte del consiglio delegante, quanto piuttosto alle norme regolatrici poste dall’ordinamento vigente, che costruiscono il sistema di governo e controllo societario sul perno dei c.d. “obblighi informativi”.
Ove tale sistema risulti compromesso, il suo deficit di funzionamento non può che riflettersi sul grado di asimmetria informativa tra management e consiglio, impedendo agli amministratori privi di deleghe di avere una panoramica conoscenza di tutti gli aspetti correlati all’azione societaria e, pertanto, di adempiere correttamente ai propri doveri.
Tanto premesso, pare opportuno volgere lo sguardo ai poteri e doveri dei consiglieri privi di deleghe, nonché ai profili di responsabilità di quest’ultimi nei confronti dell’ente in caso di loro violazione, tenuto conto dei limiti cognitivi – fisiologici e patologici – causati dalla descritta asimmetria informativa.
In proposito, è fondamentale ribadire che la citata riforma del diritto societario del 2003, ha prodotto un radicale mutamento degli obblighi degli amministratori non operativi, che si riflette in modo decisivo sul perimetro della loro responsabilità nei confronti della società per fatti di mala gestio posti in essere dagli executive.
Lo scopo palesato dalla norma era proprio quello di tutelare la figura dell’amministratore non operativo da approdi interpretativi che, all’epoca, si attestavano su posizioni di dubbia compatibilità con il principio della responsabilità per fatto proprio e colpevole, sposando piuttosto un modello di responsabilità oggettiva e di posizione.
Con riferimento a tale ultimo profilo, la novità principale e con effetti molto impattanti è stata la sostituzione del dovere di vigilanza sull’andamento della gestione con il più esigibile e generale dovere di valutare il generale andamento della gestione (art. 2381 commi 3 e 6 c.c.).
Peraltro, il canale informativo del consiglio di amministrazione continua a ad essere alimentato dall’irrinunciabile contributo degli esecutivi, poiché è proprio “sulla base delle informazioni ricevute” e “sulla base della relazione degli organi delegati’ che il consiglio valuta il generale andamento della gestione.
Non sono previsti poteri ispettivi in capo ai singoli consiglieri, né gli stessi sono autorizzati a reperire informazioni al di fuori della sede consiliare.
Quanto alla responsabilità degli amministratori senza delega per l’omesso adempimento dei propri doveri, l’esigenza di individuare idonei criteri di valutazione dell’elemento soggettivo , che consentano di caratterizzare il comportamento dell’amministratore privo di delega – e dunque di distinguere in modo sufficientemente certo tra azioni dolose e apporti involontari – è stata fronteggiata dalla giurisprudenza attraverso il ricorso alla “teoria dei segnali d’allarme”.
Sul fronte penalistico, senza ripercorrere in questa sede la ben nota evoluzione dei principi affermati sul punto dalla Corte di Cassazione, pare opportuno ricordare che, secondo gli orientamenti più recentemente consolidatisi in seno alla giurisprudenza di legittimità, per ritenere fondata l’ipotesi di una responsabilità dolosa dei membri del Consiglio di Amministrazione nei termini anzidetti – anche alla luce del portato della riforma del 2003 – occorre che i segnali d’allarme di un fatto antidoveroso in itinere siano:
– specifici, non essendo sufficienti circostanze del tutto generiche ed in quanto tali inidonee a generare una situazione di fondato sospetto;
– inequivoci, ovvero idonei a indicare in maniera inconfondibile l’esistenza di un reato in itinere,
– conosciuti dal soggetto al quale si sono manifestati .
Ai fini della prova del dolo di concorso, occorre pertanto dimostrare l’effettiva conoscenza (e non la mera conoscibilità) dei segnali d’allarme e tale prova deve essere raggiunta verificando se essi siano stati effettivamente percepiti dal singolo amministratore, rimanendo la loro astratta percepibilità confinata nel perimetro della colpa.
E ciò a maggior ragione quando si indaga sulla responsabilità di un amministratore privo di deleghe in materia di false comunicazioni sociali.
La Corte di Cassazione circoscrive inoltre la rilevanza degli indici di pericolo esclusivamente a quelli dotati di peculiari caratteristiche.
Si ritiene, in particolare, che ai fini dell’affermazione della penale responsabilità dell’amministratore non esecutivo, occorre dimostrare che lo stesso ha percepito segnali “perspicui e peculiari in relazione all’evento illecito” (dunque circostanze chiaramente e univocamente indicative del fatto di reato) nonché un apprezzabile grado di anomalia dei segnali rispetto al contesto operativo in cui essi si sono manifestati.
Giudizi di peculiarità e anomalia che non devono evidentemente essere formulati in via generale e astratta, ma secondo una prospettiva che tenga conto del contesto concreto in cui era chiamato ad operare l’amministratore e delle sue competenze.
I principi suesposti costituiscono ormai jus receptum e sono stati ribaditi con forza anche dalle più recenti decisioni della Suprema Corte.
In materia penal-fallimentare, i Giudici di Cassazione hanno avuto modo di confermare che è possibile delineare una responsabilità penale “per fatti di bancarotta patrimoniale degli amministratori di società per azioni, privi di deleghe gestorie, nell’ambito di applicazione dell’art. 40, secondo comma, c. p., nel senso che la responsabilità per omesso impedimento dell’evento illecito si qualifica (…) a condizione che sussistano, e siano stati in concreto percepiti da tali soggetti, segnali perspicui e peculiari dell’evento illecito caratterizzati da un elevato grado di anormalità” (Cass. Pen., Sez. I, sent. 3/4/2018, n. 14783).
Di talché, “occorre la effettiva conoscenza del “segnale di allarme”, non già la mera conoscibilità. Non solo, per dare senso e concretezza al dolo eventuale più volte invocato nella giurisprudenza di questa Corte come parametro minimo per la riferibilità psicologica di quell’evento pregiudizievole al soggetto attivo del reato, occorre che il dato indicativo del rischio di verificazione dell’evento stesso non sia stato soltanto conosciuto, ma è invece necessario che l’amministratore se lo sia in effetti rappresentato come dimostrativo di fatti potenzialmente dannosi, e non di meno sia rimasto deliberatamente inerte. Argomentando diversamente, infatti, non si potrebbe ancora discutere di dolo, neppure nella forma del dolo eventuale, che richiede pur sempre da parte del soggetto attivo – per potersi affermare che un fatto è da lui voluto, per quanto in termini di mera accettazione del rischio che si produca – la determinazione di orientarsi verso la lesione o l’esposizione a pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice: un conto è, dunque, che l’amministratore privo di delega rimanga indifferente dinanzi ad un “segnale di allarme” percepito come tale, in quanto decida di non tenere in considerazione alcuna l’interesse dei creditori o il destino stesso della società, ben altra cosa è che egli continui a riconoscere fiducia, per quanto mal riposta, verso le capacità gestionali di altri, ovvero che per colpevole – ma non dolosa superficialità venga meno agli obblighi di controllo su di lui effettivamente gravanti, accontentandosi di informazioni insufficienti su un’operazione che gli viene sottoposta per approvazione senza che egli si renda davvero conto delle conseguenze che ne potrebbero derivare. Solo nel primo caso, infatti, l’amministratore potrà essere chiamato a rispondere penalmente delle proprie azioni od omissioni, non già nel secondo, dove – ferma restando la prospettiva di ravvisare una sua responsabilità in sede civile, ricorrendone i meno rigorosi presupposti – può ritenersi provato soltanto l’addebito di aver agito per colpa” (Cass. Pen., Sez. V, sent. 7/4/2016, n. 14045). In termini, per la loro chiarezza interpretativa, si segnalano: Cass. Pen., Sez. V, sent. 24/5/2016, n. 21702; Cass. Pen., Sez. V, sent. 15/7/2016, n. 30333; Cass. Pen., Sez. V, sent. 23/8/2016, n. 35344.
In sintesi, alla luce del diritto vivente in subiecta materia, il percorso logico giuridico che deve fondare il giudizio di responsabilità nel caso di specie, è costituito dai seguenti passaggi:
a) accertamento di una condotta attiva integrante l’elemento oggettivo ad opera dell’autore materiale della falsificazione di bilancio;
b) accertamento dell’inerzia dell’amministratore che non ha partecipato attivamente alla immutatio veri;
c) accertamento della conoscenza, da parte dell’amministratore stesso, di un illecito in itinere, attraverso la dimostrata percezione di specifici e inequivoci campanelli d’allarme correttamente interpretati dal soggetto.
Fatta tale premessa di metodo, appare chiaro che nel caso oggetto di procedimento, per valutare la responsabilità di un consigliere senza deleghe in relazione alle ipotesi contestate, mancando agli atti la prova di una sua fattiva partecipazione alla fase genetica dell’ipotizzato falso nelle comunicazioni sociali, ciò che assume esclusivo rilievo è la sussistenza o meno di elementi che siano dimostrativi della deliberata e consapevole inerzia dell’imputata di fronte a chiari indici di una manipolazione dei progetti di bilancio sottoposti all’approvazione del Consiglio di Amministrazione.
L’organo inquirente prima, e il giudicante dopo, devono effettuare una approfondita analisi sugli ulteriori connotati delineati dalla giurisprudenza: la percepibilità di tali indici di possibili illecite maniere sul bilancio da parte dei consiglieri senza deleghe, la loro effettiva percezione e l’idoneità degli stessi (per il loro carattere perspicuo e peculiare, univocamente indicativo dell’illecito in itinere) a consentire all’amministratore senza deleghe di rappresentarsi la sussistenza di fatti illeciti nelle comunicazioni sociali o di altri atti di mala gestio.
I segnali d’allarme idonei a fondare il giudizio di sussistenza della percezione di un fatto illecito in capo all’amministratore senza deleghe sono quelli univocamente indicativi dell’illecito in itinere, che nel caso di specie è il delitto di false comunicazioni sociali di cui all’art. 2621 c.c.
Ai fini della prova della responsabilità dell’amministratore senza deleghe, pertanto, l’organo inquirente deve prima di tutto individuare fatti e circostanze che, secondo l’id quod plerumque accidit, consentissero a chi avesse esaminato (senza avere preso parte alla sua redazione) il progetto di bilancio, di individuare come false le appostazioni contabili descritte capo d’imputazione.
Ebbene, a fondare un positivo giudizio di responsabilità del consigliere senza deleghe nella formazione di un bilancio mendace non è certo sufficiente un mero rinvio alla esistenza di una situazione di insolvenza della società; tale stato di (non)salute della società non è sufficiente a fondare la prova del consapevolezza/dolo del consigliere senza deleghe se l’obbiezione a suo carico fosse, ad esempio in un contesto di successiva declaratoria di insolvenza, quella di avere ritardato la richiesta di liquidazione giudiziale, celata dalle valutazioni delle poste di bilancio, a fronte della tempestiva emersione dello stato di insolvenza.
Giova infatti sul punto osservare ulteriormente che la ritenuta esistenza, da parte della curatela della liquidazione giudiziale, di indici dell’incapacità della società di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, non può considerarsi ontologicamente incompatibile con le poste del bilancio di cui si contesta la genuinità.
Ad esempio se le appostazioni in bilancio di cui viene contestata la veridicità e su cui si fonda il giudizio di responsabilità nei confronti del consigliere senza deleghe, riguardano la valorizzazione, di marchi, partecipazioni e imposte anticipate –(voci di bilancio non incompatibili con una situazione di illiquidità) e/o l’omessa contabilizzazione di oneri e costi d’esercizio, vale a dire presunte omissioni di passività poste in essere attraverso artifici contabili, la cui esistenza, già di per sé non agevolmente individuabile, non poteva inferirsi dalla prospettata esistenza della crisi di liquidità aziendale.
E qui si inserisce la doverosa valutazione dell’elemento soggettivo dell’amministratore senza deleghe la quale, secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione, deve passare attraverso un’analisi orientata alla puntuale e approfondita individuazione di quello che, all’epoca dei fatti, era il patrimonio conoscitivo effettivamente a disposizione del consigliere senza deleghe sugli specifici elementi rispetto ai quali i bilanci sono stati ritenuti non veritieri.
La valutazione del dolo si incentra, in definitiva, sulla disamina delle informazioni veicolate al Consiglio di Amministrazione in merito alle operazioni di cui si ipotizza la falsa appostazione, per appurare se da tale compendio conoscitivo (e non da un compendio informativo ipotetico e mai conosciuto dall’amministratore senza delega) emergessero circostanze ex ante idonee a evidenziare in modo specifico e inequivoco indici di difformità tra quanto rappresentato nei progetti di bilancio sottoposto al Consiglio e la reale situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società.
Il contesto principale da cui occorre necessariamente prendere le mosse per verificare se e in quale misura l’organo gestorio fosse stato effettivamente destinatario di comunicazioni suscettibili di assumere il significato di “segnali di allarme” rispetto alle operazioni contestate, è pertanto quello delle riunioni periodiche del Consiglio di Amministrazione.
In assenza di discussione consigliare, sugli argomenti riguardanti le valutazioni delle poste di bilancio, è assai arduo ipotizzare la responsabilità penale del consigliere senza deleghe.

 

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