Sentenza n. 36446/2023 della Suprema Corte – Sez. Civile – Seconda Sezione
La prova della obbligazione restitutoria nel contratto di mutuo
Il Fatto
Tizio conveniva Caio dinanzi al Tribunale per la restituzione di una somma di denaro che asseriva di aver concesso in mutuo al convenuto, per l’acquisto in comproprietà paritaria di un immobile ad un’asta giudiziaria, allegando quale prova, esclusivamente i bonifici bancari di versamento delle somme.
Il convenuto contestava la sussistenza di un contratto di mutuo ed assumeva che quanto versato dall’attore si inseriva in una operazione negoziale più ampia, con l’acquisto di un secondo immobile e comunque, di aver ricevuto le somme di cui l’attore chiedeva la restituzione, quale quota dovuta dall’attore stesso per il pagamento del prezzo di un immobile acquistato all’asta, di tanto fornendo prova documentale.
In corso di causa interveniva un tentativo di conciliazione, non andato a buon fine, nel quale il convenuto si rendeva disponibile allo scioglimento della comunione, anche riconoscendo all’attore una maggiore frazione sull’immobile.
Il Tribunale e la Corte di Appello, con doppia sentenza conforme condannavano il convenuto – appellante alla restituzione delle somme pretese dall’attore, sul presupposto che la mancata prova del titolo negoziale a base della datio in denaro non è motivo sufficiente per escludere l’obbligo di restituzione in capo all’accipiens. La mancata prova rigorosa, da parte dell’attore, dell’esistenza di un contratto di mutuo, a giustificazione del diritto alla restituzione di somme che concretamente dimostri di aver versato, non implica necessariamente il rigetto della domanda restitutoria, laddove l’obbligazione possa desumersi da circostanze di fatto non contestate e quando l’accipiens, nel contestare il fine mutualistico, non indichi alcuna altra causa che possa giustificare la mera acquisizione delle somme. Il convenuto-appellante, secondo i giudici di merito, si è limitato a contestare l’esistenza del fine mutualistico adducendo, sia pure sommessamente, che la fattispecie potrebbe inquadrarsi giuridicamente come ‘donazione indiretta’, ma nel contempo si è dichiarato disponibile a sciogliere la comunione col riconoscimento della maggiore quota da attribuirsi all’attore, disponibilità che in sostanza, sempre secondo i giudici di merito, altro non è se non una proposta di estinzione dell’obbligazione in modo diverso dal semplice adempimento.
Inoltre, i reiterati tentativi di comporre bonariamente la lite – attraverso sia l’assegnazione dell’immobile con conguaglio, ovvero il riconoscimento di maggior quota – hanno sempre tenuto conto ed implicato la restituzione della maggior somma versata dall’attore. Tutti argomenti di prova che, insieme al comportamento processuale delle parti, sono stati ritenuti sufficienti a condannare il convenuto.
La Corte Suprema, sul ricorso del soccombente in sede di merito, ha ribaltato le due sentenze dei giudici territoriali, ritenendo la sussistenza di una insanabile contraddittorietà nella motivazione.
Partendo dalla premessa, spiega la Corte di Cassazione, che la dazione di una somma di danaro non vale – di per sé – a dar fondamento alla richiesta di restituzione, allorquando, pur ammessane la ricezione, l’accipiens non confermi il titolo allegato dal solvens alla base della pretesa restitutoria (è ovvio infatti che una somma di danaro può essere consegnata per varie cause), la contestazione da parte dell’accipiens dell’obbligo di restituzione, impone all’attore di dimostrare integralmente il fatto costitutivo della sua pretesa. Tale onere ha ad oggetto la prova di un titolo giuridico implicante l’obbligo della restituzione, mentre la deduzione di un diverso titolo ad opera del convenuto non si configura come eccezione in senso sostanziale e quindi non vale ad invertire l’onere della prova (Così, Cass. 30944/2018).
Il carattere irriducibilmente contraddittorio della motivazione, continua la Corte, risalta anche alla luce degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in tema di prova del contratto di mutuo, che la Corte di Appello non ha saggiato correttamente nella loro incidenza normativa per decidere il caso di specie. Infatti, l’attore che domandi la restituzione di una somma di denaro sulla base di un mutuo è tenuto a provare, oltre alla consegna del denaro, anche che essa è avvenuta per un titolo che fondi l’obbligo di restituzione (cfr. fra le altre, Cass. 3258/2007).
In altri termini, negare l’esistenza di un contratto di mutuo non significa eccepirne l’inefficacia, la modificazione o l’estinzione, ma significa per l’appunto negare il titolo posto a base della domanda, ancorché il convenuto riconosca di aver ricevuto una somma di danaro ed indichi la ragione per la quale tale somma è stata versata.
Anche in tal caso, quindi, rimane fermo l’onere probatorio a carico dell’attore, con le relative conseguenze nell’ipotesi di mancata dimostrazione (cfr. Cass. 6295/2013, tra le altre).
In applicazione di detti principi non può essere qualificato come riconoscimento di un’obbligazione restitutoria e posta a fondamento di un asserito contratto di mutuo, pur rimasto privo di prova, la disponibilità manifestata dal convenuto a riconoscere all’attore una maggiore frazione nello scioglimento di una comunione su un’immobile, perché si tratta comunque di un evento negoziale da tenere ben distinto; in particolare, nel caso di specie, la pretesa restitutoria dedotta in giudizio si inserisce – alla stregua di allegazioni rimaste sostanzialmente non contestate – nel quadro di una vicenda più ampia, che coinvolge anche l’acquisto di un altro bene immobile e rimasto estraneo al giudizio.
Un plauso alla Suprema Corte che ha egregiamente reso giustizia in un caso in cui, le argomentazioni presenti in sentenza erano contrastanti e non permettevano di comprendere la ragione decisionale alla base della sentenza adottata.