Tra il rigore della legge e la soglia di casa

Tra il rigore della legge e la soglia di casa

Da Dura lex, sed lex a Zustissia v’appada, in dommo non colede

La giustizia è un concetto che vive di contrasti. Da un lato, la sua immagine solenne e universale: la legge che si impone come regola uguale per tutti, senza eccezioni, senza indulgenze. Dall’altro, la voce più intima e popolare, che la guarda con sospetto e la respinge oltre la soglia domestica. Due motti, due mondi: “Dura lex, sed lex”, il latino che incarna la durezza dell’istituzione e “Giustizia sia, ma non passi a casa mia”, il proverbio che racconta la diffidenza del cittadino.

La durezza della legge

Dura lex, sed lex” è una formula che attraversa i secoli. È la voce del diritto romano, che ha plasmato l’idea moderna di legalità. La legge, anche quando appare severa, è legge: va rispettata. Non importa se punisce con rigore, se sembra cieca alle sfumature della vita quotidiana. La sua forza sta proprio nell’essere impersonale, universale, uguale per tutti. È il fondamento dell’ordine sociale, il patto che tiene insieme la comunità.

Dietro questa massima c’è la fiducia nell’istituzione: la legge non è un’opinione, non è un sentimento, ma un vincolo che garantisce stabilità. È la certezza che, pur nella sua durezza, la norma protegge dall’arbitrio e dall’anarchia.

La diffidenza della casa

Il proverbio “Giustizia sia, ma non passi a casa mia” racconta invece un’altra storia. È la voce della comunità che percepisce la giustizia come distante, estranea, talvolta minacciosa. È un motto ironico e amaro, che denuncia l’ipocrisia sociale: si invocano regole per gli altri, ma si rifiuta di subirne le conseguenze.

Qui la giustizia non è vista come garanzia, ma come intrusione. La casa diventa il luogo sacro dell’autonomia, lo spazio che si vuole difendere dall’occhio esterno. È la memoria di un rapporto difficile con le istituzioni, dove la legge appare più come imposizione che come protezione.

Socrate e il patto con la città

A questo contrasto si aggiunge la voce dei classici. Socrate, nel Critone di Platone, rifiutò di fuggire dalla prigione dopo la condanna a morte. Per lui, chi vive in una città accetta implicitamente le sue regole: se non le condivide, deve abbandonarla, non violarla. Restare significa rispettare il patto implicito con la polis.

È una posizione radicale: la legge è legge, anche quando appare ingiusta. Non si può spezzare il vincolo senza spezzare la comunità stessa. Socrate diventa così il simbolo dell’obbedienza estrema, della fedeltà al patto sociale fino al sacrificio della vita.

Antigone e la ribellione morale

Ma la storia ci offre anche l’altra voce: quella di Antigone, che disobbedì al decreto del re Creonte per seppellire il fratello. Per lei, la legge umana non poteva prevalere sulla legge divina e sulla coscienza. Antigone è il simbolo della ribellione morale, della disobbedienza che nasce dall’ingiustizia.

Dal Medioevo all’età moderna

Molti dissidenti hanno scelto l’esilio: da Dante Alighieri, costretto a lasciare Firenze, fino agli illuministi perseguitati. Era la via di chi non accettava la legge ma non voleva infrangerla. Altri hanno scelto la rivoluzione: la Rivoluzione francese e quella americana nacquero dal rifiuto di leggi percepite come oppressive.

La disobbedienza civile

Nell’età contemporanea, la disobbedienza civile diventa un metodo consapevole. Henry David Thoreau rifiutò di pagare le tasse che finanziavano la guerra e la schiavitù. Gandhi trasformò la non-violenza in forza politica contro le leggi coloniali britanniche. Martin Luther King violò deliberatamente le leggi segregazioniste, accettando le conseguenze penali per dimostrarne l’ingiustizia.

Questi esempi mostrano che la legge può essere contestata non per distruggerla, ma per cambiarla. La disobbedienza civile è un atto di fiducia nella giustizia: si viola la norma per rivelarne l’ingiustizia e aprire la strada a una legge migliore.

Il paradosso culturale

Il contrasto tra i due motti e tra queste figure storiche rivela una tensione che attraversa i secoli:

La legge universale proclama la sua durezza come garanzia di equità.

La voce popolare la respinge, temendo che la sua durezza si trasformi in ingiustizia privata.

La filosofia socratica invita ad accettarla o a lasciare lo Stato.

La coscienza ribelle invita a disobbedire per cambiarla.

Insegnamento morale

La storia ci insegna che la giustizia non può essere solo legge, né solo coscienza. Se resta fuori dalla porta, è percepita come minaccia; se si impone senza ascolto, diventa oppressione; se si rifiuta senza alternativa, diventa anarchia.

La vera sfida è costruire una giustizia che sappia essere dura quando serve, ma anche vicina e umana. Una giustizia che non si limiti a proclamare “Dura lex, sed lex”, né si fermi davanti alla soglia di casa, ma che entri con rispetto, come ospite e non come invasore.

Perché la giustizia, se non è condivisa, non è giustizia: è solo un’ombra che divide.

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