Crisi o non crisi
La mala gestio vive anche nelle società sane
Ormai da tempo si tende a valutare e reprimere la mala gestio quasi esclusivamente in scenari di crisi aziendale o dissesto conclamato. Questa impostazione, pur frutto di una logica emergenziale, produce effetti distorsivi profondi: riduce la portata dell’obbligo gestorio a situazioni patologiche estreme e lascia prive di tutela le condotte dannose commesse nelle fasi “in bonis”.
- Introduzione: un fenomeno giuridico e sociale
La responsabilità gestoria degli amministratori, lungi dall’essere un presidio “di emergenza”, è concepita dal legislatore come una regola di condotta permanente. Tuttavia, negli ultimi anni, l’attenzione repressiva si concentra quasi esclusivamente dopo che l’azienda entra in crisi.
Da un punto di vista sociologico, ciò alimenta un fenomeno di “tolleranza dell’irregolarità”: se la società è apparentemente solida, la violazione delle norme di trasparenza e correttezza viene percepita come non prioritaria. In questo modo, il diritto societario perde la funzione preventiva e diventa diritto “a posteriori”, un meccanismo che interviene quando il danno è già irreversibile.
- La mala gestio “in bonis”: un fenomeno sommerso ma devastante
Nell’immaginario giuridico corrente, la mala gestio viene percepita come patologia tipica delle fasi terminali di un’impresa, quando la crisi o il dissesto rendono inevitabile l’intervento giudiziario.
Ma questa visione riduttiva ignora un dato allarmante: una parte consistente e insidiosa delle condotte gestorie dannose avviene quando la società è formalmente “sana”.
Queste condotte – spesso invisibili perché coperte da risultati economici apparentemente positivi – possono assumere forme diverse: omissioni sistematiche di adempimenti fondamentali, decisioni antieconomiche che erodono valore nel lungo periodo, operazioni opache che favoriscono interessi personali o di terzi a scapito della società, paralisi deliberativa che neutralizza la partecipazione dei soci, fino a vere e proprie manovre per aggirare o svuotare i controlli interni.
Il tratto comune è la loro capacità di logorare lentamente la struttura patrimoniale, la trasparenza e la fiducia su cui si regge l’impresa, senza produrre nell’immediato un dissesto percepibile. Proprio per questo il fenomeno è doppiamente pericoloso:
- perché silenzioso (i danni restano occulti finché la situazione non diventa irreversibile);
- perché tollerato (la giurisprudenza tende a non intervenire se non vi è crisi conclamata, trasformando l’assenza di dissesto in un lasco lasciapassare).
Questa “mala gestio sommersa” non è un problema marginale, ma un vulnus strutturale alla legalità societaria: produce una progressiva erosione della fiducia degli investitori, scoraggia la partecipazione attiva dei soci di minoranza, legittima pratiche opache e indebolisce la cultura di responsabilità che dovrebbe presidiare ogni fase della vita aziendale.
Se non affrontata, essa rischia di consolidare un modello di governance in cui la legalità è percepita come vincolo opzionale e la responsabilità degli amministratori come una minaccia eventuale, legata solo al fallimento. È questo il vero allarme: un ordinamento che punisce solo a disastro avvenuto è un ordinamento che abdica alla prevenzione e alla tutela effettiva del mercato.
- Gli effetti sistemici e sociologici della mala gestio “in bonis”
3.1. Un fenomeno che cresce nell’ombra
La mala gestio “in bonis” è pericolosa proprio perché non si manifesta attraverso i sintomi tradizionali della crisi d’impresa. I bilanci, quando redatti, possono ancora presentare utili; la liquidità può risultare sufficiente; la reputazione esterna dell’azienda può rimanere intatta.
Questo apparente benessere funge da velo protettivo per comportamenti che, se esaminati nel merito, rappresenterebbero gravi violazioni degli obblighi gestori: omissione sistematica di adempimenti societari, decisioni gestionali a favore di interessi personali, indebolimento deliberato dei controlli interni, esclusione della minoranza dal processo decisionale.
La pericolosità deriva dal fatto che tali condotte, operate in un contesto di prosperità apparente, non suscitano reazioni tempestive né da parte degli organi interni né da parte del giudice, creando una “zona franca” in cui il diritto societario perde la sua funzione deterrente.
3.2. Normalizzazione dell’irregolarità e perdita della cultura di legalità
Questo atteggiamento istituzionale produce una normalizzazione dell’irregolarità: se le condotte irregolari non generano conseguenze immediate, vengono progressivamente percepite come tollerabili, parte del “gioco” aziendale.
Ciò modifica la cultura interna dell’impresa e, più in generale, il modo in cui il tessuto economico percepisce le regole:
- il rispetto formale degli obblighi è visto come onere inutile in tempi di prosperità;
- l’inosservanza diventa prassi accettata purché non provochi crisi evidente;
- la responsabilità dell’amministratore è interpretata come “remota” e legata solo a scenari di dissesto.
Questo slittamento culturale è insidioso perché agisce nel lungo periodo, svuotando dall’interno la funzione preventiva della disciplina societaria.
3.3. Effetti sulla fiducia degli stakeholder
La mala gestio “in bonis” genera un deterioramento silenzioso della fiducia che soci di minoranza, creditori e controparti commerciali ripongono nella correttezza dell’impresa.
Se i soci percepiscono che gli obblighi legali fondamentali – come la trasparenza contabile, il rispetto delle procedure deliberative, l’uso corretto delle risorse – possono essere impunemente disattesi in assenza di crisi, il loro incentivo a partecipare attivamente e a investire si riduce.
Per i creditori, l’assenza di controlli effettivi in bonis si traduce in aumento del rischio sistemico: le informazioni ufficiali sull’azienda perdono affidabilità, compromettendo la valutazione del merito creditizio.
3.4. Paralisi e rischio di collusione degli organi di controllo
Un effetto tipico di questo fenomeno è la paralisi degli organi di controllo interni (collegio sindacale, revisore legale) e, in molti casi, la loro collusione di fatto con l’inerzia gestoria.
Ciò rappresenta la rottura del “patto fiduciario tripolare” tra amministratori, controllori e soci. Quando i controllori si astengono dall’esercitare pressioni o dall’attivare rimedi per gravi irregolarità “in bonis”, legittimano implicitamente la condotta dell’amministratore, rinunciando alla propria funzione di garanti del corretto funzionamento societario.
3.5. Il rischio di un ordinamento “a posteriori”
La concentrazione della repressione solo sulla mala gestio post-crisi trasforma, di fatto, il diritto societario in un ordinamento d’emergenza.
Questa impostazione:
- abbandona la funzione di prevenzione e di regolazione continua;
- priva il mercato di uno strumento di correzione ex ante;
- rafforza nei gestori opachi l’idea che “finché reggiamo, possiamo fare ciò che vogliamo”.
Sul lungo periodo, si crea un ciclo vizioso: l’assenza di interventi in bonis alimenta condotte rischiose, le quali, non intercettate, aumentano la probabilità di crisi futura, aggravandone la portata quando finalmente emerge.
3.6. Ricadute macroeconomiche e sociali
In una prospettiva più ampia, la tolleranza della mala gestio in bonis indebolisce il capitale reputazionale complessivo del sistema imprenditoriale:
- gli investitori esteri percepiscono un ambiente in cui la compliance è intermittente e condizionata dalla crisi;
- gli operatori economici interni si adattano a pratiche meno trasparenti per “non rimanere indietro”;
- le regole societarie perdono valore simbolico come indicatori di affidabilità e serietà.
In altre parole, la scarsa attenzione alle irregolarità in bonis non è un problema tecnico settoriale, ma una falla che può compromettere la competitività e la credibilità dell’intero sistema economico.
- Perché la mala gestio interessa (quasi) solo nelle situazioni di crisi
4.1. L’inerzia come frutto di un approccio emergenziale
Il primo motivo è di natura funzionale e organizzativa: il diritto societario italiano – e in larga parte la prassi giudiziaria – è permeato da un approccio di tipo emergenziale.
I Tribunali delle Imprese, sovraccarichi e chiamati a gestire un contenzioso altamente tecnico, spesso concentrano le energie sui casi in cui il danno è conclamato, la crisi è manifesta e le ricadute economico-sociali sono immediate.
Questa logica, apparentemente pragmatica, tradisce però la funzione preventiva della disciplina societaria, relegandola a strumento di intervento tardivo.
4.2. La “prova” facile della crisi
Un’altra ragione è di ordine probatorio: la crisi, soprattutto se accompagnata da insolvenza o dissesto, fornisce indicatori oggettivi (bilanci in perdita, insolvenze bancarie, riduzione drastica del capitale sociale, malversazioni, frodi tributarie) che rendono più agevole sostenere l’esistenza di condotte dannose e nesso causale.
Al contrario, nelle società in bonis il danno derivante da mala gestio può essere latente, progressivo e difficilmente quantificabile. La difficoltà di tradurre in termini probatori una lesione che non si manifesta nei numeri immediati induce molti giudici a non spingersi oltre.
4.3. L’equivoco dell’autonomia privata
Una ragione di natura ideologica è la perseverante sopravvalutazione dell’autonomia privata: si tende a ritenere che, finché la società è sana, eventuali irregolarità siano “affare dei soci” e che il diritto non debba ingerirsi in rapporti interni se non in caso di rischio per i terzi (creditori, mercato).
Questo equivoco trascura il fatto che le società di capitali operano sempre in un contesto di relazioni esterne e che la loro corretta gestione è un bene giuridico di rilevanza pubblica.
4.4. Il condizionamento del diritto concorsuale
La tradizione italiana di stretta interconnessione tra responsabilità degli amministratori e procedure concorsuali ha prodotto un effetto collaterale: l’azione di responsabilità è spesso vista come corollario della procedura fallimentare.
Il curatore, subentrando nei diritti della società, agisce (sempre) contro gli amministratori con maggiore forza probatoria e in un contesto in cui il danno è evidente. In assenza di fallimento o liquidazione giudiziale, l’iniziativa è rimessa ai soci o ai creditori individuali, con risultati sporadici.
4.5. La miopia economica dell’“assenza di urgenza”
Sul piano pratico, se l’impresa produce utili, mantiene occupazione e onora i debiti, le istituzioni percepiscono l’assenza di un’urgenza sociale nell’intervenire.
Questo riflesso condizionato porta a trascurare che molte crisi nascono proprio da condotte opache tollerate in bonis e che l’intervento precoce, anche giudiziario, potrebbe evitare danni ben più gravi.
4.6. La resistenza culturale alla sanzione preventiva
Infine, esiste un fattore culturale e psicologico: il sistema giuridico italiano, intese nel senso più ampio, tende a esercitare la sanzione in presenza di un “male” già visibile.
Punire un amministratore di una società che “sta bene” richiede uno sforzo motivazionale maggiore, perché appare controintuitivo colpire un soggetto che non ha ancora “rovinato” l’azienda. È una resistenza che affonda le radici nella cultura giuridica della colpa post factum, non della prevenzione.
4.7. Mala gestio e reati-spia: due facce della stessa miopia
La dinamica con cui l’ordinamento affronta la mala gestio in sede civilistica presenta una sorprendente – e inquietante – analogia con la gestione penalistica dei cosiddetti reati spia. Sul piano civilistico, l’azione di responsabilità contro gli amministratori è, in concreto, nella pressoché totalità dei casi promossa solo allorché la società versi già in stato di insolvenza e sia aperta una procedura concorsuale. Tutta la fase patologica che precede il dissesto, pur contrassegnata da decisioni manifestamente contrarie all’interesse sociale, da operazioni azzardate o distrattive e da violazioni di legge e statuto, resta priva di una reazione giudiziaria tempestiva: la responsabilità viene “cristallizzata” e fatta valere quando ormai l’attivo patrimoniale è compromesso e il margine di recupero per i creditori è minimo.
La stessa miopia si riscontra nel diritto penale dell’economia (a titolo esemplificativo, false comunicazioni sociali, infedeltà patrimoniali, reati tributari, appropriazioni indebite e truffe) – tutte condotte che segnalano in modo inequivocabile una gestione distorta – raramente danno luogo a indagini e contestazioni efficaci nella fase in cui ancora sarebbe possibile interrompere la spirale degenerativa. Anche qui, la reazione dell’ordinamento si manifesta in forma piena solo quando tali condotte si “trasformano” nel reato di bancarotta fraudolenta, ossia quando l’insolvenza è già sopravvenuta e accertata.
In entrambi i contesti, civile e penale, il paradigma è il medesimo: la violazione, pur grave e produttiva di danno, non viene percepita e sanzionata come fatto autonomo dotato di propria offensività, ma solo come elemento di una fattispecie più grave che si concretizza ex post con il dissesto. È un approccio sostanzialmente reattivo e non preventivo, che trasforma la mala gestio non contrastata in una vera e propria incubatrice di crisi. L’analogia può essere resa con l’immagine di una diga che perde acqua da più punti: finché non crolla, si rinvia ogni intervento; ma quando il collasso si verifica, l’inondazione è ormai inevitabile e le riparazioni non possono restituire ciò che è stato distrutto.
4.8. La convergenza delle inerzie: un deficit di prevenzione condiviso tra penale e civile
Il confronto tra la gestione civilistica della mala gestio e il trattamento penalistico dei reati-spia rivela una matrice patologica comune: in entrambi i sistemi, la reazione dell’ordinamento si attiva solo a danno conclamato, quando la crisi d’impresa è già irreversibile. Sul piano penale, condotte quali le false comunicazioni sociali, le infedeltà patrimoniali o i reati tributari fraudolenti vengono spesso archiviate o sottovalutate finché non confluiscono in una bancarotta; sul piano civile, le azioni di responsabilità verso gli amministratori rimangono lettera morta fino a quando l’insolvenza non è accertata in sede concorsuale.
Si tratta di un deficit di prevenzione strutturale che priva entrambi i sistemi della loro funzione anticipatoria, riducendoli a strumenti reattivi. Questa impostazione, oltre a compromettere la tutela dei creditori e la salvaguardia del patrimonio sociale, alimenta un pericoloso moral hazard: amministratori e dirigenti comprendono che la probabilità di subire conseguenze concrete per condotte gravemente scorrette è minima finché la società appare formalmente “in vita”, anche se già avviata verso il dissesto.
In tal modo, civile e penale finiscono per essere due lati della stessa moneta difettosa: la responsabilità, pur prevista e disciplinata, viene applicata come mero epilogo di una vicenda già segnata, non come strumento per evitarne il precipitare. Riconoscere e correggere questa convergenza di inerzie significa ristabilire coerenza e credibilità nell’intero sistema di tutela della corretta gestione societaria, trasformando la responsabilità in un presidio attivo e non in un atto di constatazione tardiva.
In conclusione, le ragioni per cui la mala gestio riceve attenzione quasi esclusivamente in contesti di crisi non sono solo giuridiche, ma organizzative, probatorie, ideologiche e culturali.
Esse convergono nel produrre un effetto perverso: il diritto interviene quando il danno è ormai irreparabile, abbandonando la sua missione di tutela anticipata.
Superare questo paradigma richiede un cambio di prospettiva che riporti la responsabilità gestoria in bonis al centro dell’attenzione giudiziaria, come presidio della legalità e della stabilità economica del sistema.
- La riduzione della mala gestio a conflitto privato: un errore sistemico
Il sistema di norme che sanziona la mala gestio degli amministratori non si limita a presidiare la garanzia patrimoniale dei creditori sociali, ma tutela in senso più ampio l’integrità dell’organizzazione societaria quale centro di imputazione di interessi complessi. L’azione di responsabilità per violazione dei doveri di legge o statutari protegge, in primo luogo, il patrimonio della società quale bene funzionale allo svolgimento dell’attività imprenditoriale, non riducibile a semplice “fondo comune” per la soddisfazione dei creditori. In secondo luogo, essa salvaguarda l’interesse sociale unitario, che comprende non solo quello economico dei soci al rendimento dell’investimento, ma anche la continuità aziendale, la regolarità amministrativa, la conformità dell’azione gestionale alla legge e ai principi di corretta amministrazione.
Sotto il profilo sistemico, la responsabilità per mala gestio mira altresì a preservare la fiducia che il mercato e i terzi contraenti ripongono nella corretta conduzione delle società, ponendosi come presidio di trasparenza e affidabilità nei rapporti economici. Il danno da mala gestio, infatti, non si esaurisce nell’erosione patrimoniale: esso può compromettere il capitale reputazionale e relazionale dell’ente, incidendo sulla sua capacità di attrarre investimenti, ottenere credito e mantenere rapporti commerciali stabili.
In questa prospettiva, la norma assume un rilievo non solo privatistico ma anche ordinamentale, contribuendo a garantire la sana e prudente gestione delle imprese, la leale concorrenza e la stabilità del tessuto economico. Limitare la funzione di tale disciplina alla sola protezione dei creditori significherebbe ignorare la sua vocazione di tutela complessiva dell’impresa come istituzione, riducendone l’efficacia preventiva e la portata etico-sociale.
5.1. Una qualificazione giuridica riduttiva
In molte decisioni, la mala gestio “in bonis” viene implicitamente o esplicitamente considerata, o spesso liquidata, come un fatto che riguarda soltanto i rapporti interni tra soci e amministratori, un conflitto di interessi privato senza ricadute di rilievo per l’ordinamento.
Questa impostazione – che potremmo definire privatistica estrema – produce due conseguenze immediate:
– svaluta la rilevanza pubblicistica della corretta gestione societaria;
– restringe il perimetro di intervento giudiziario, relegando la questione a dispute contrattuali tra soggetti dotati di pari capacità di difesa.
Liquidare tale iniziativa come un mero espediente negoziale volto a ottenere “vantaggi” o “prezzi più elevati” in sede di compravendita di quote significa snaturare la funzione propria dell’azione di responsabilità, riducendola a una strategia opportunistica e sottraendole dignità giuridica.
Un approccio che scredita aprioristicamente le azioni dei soci in contesto in bonis, attribuendo loro finalità opportunistiche, disinnesca uno degli strumenti cardine della corporate governance e favorisce, di fatto, la tolleranza verso condotte gestionali scorrette finché la società non manifesta segni di dissesto.
5.2. La fallacia della “non rilevanza pubblica”
Sul piano teorico, qualificare la mala gestio come mero dissidio tra soci o tra socio e amministratore ignora la natura funzionale della società di capitali.
Le società non sono isole chiuse nei rapporti interni. Infatti, amministrano capitali che spesso provengono da più investitori; intrattengono rapporti con fornitori, clienti, banche, enti pubblici; partecipano a filiere produttive e di servizi di interesse economico generale.
In questo senso, ogni atto di gestione – corretto o scorretto – ha inevitabilmente riflessi esterni.
Considerare la mala gestio “in bonis” come fatto meramente interno equivale a negare che la legalità societaria sia un bene collettivo, parte integrante della sicurezza del traffico economico.
5.3. Un alibi per ridurre l’intervento repressivo
La riduzione a “conflitto privato” funziona, nella pratica, come un alibi istituzionale per evitare di attivare i rimedi giurisdizionali.
Il ragionamento implicito è il seguente: se non c’è crisi, e la controversia riguarda soprattutto equilibri di potere o pretese economiche tra soci, non vale la pena impegnare risorse giudiziarie.
Ma questa logica è miope.
Infatti, ignora gli effetti a catena che condotte di mala gestio tollerate possono avere sulla competitività e sulla fiducia nel sistema e rinuncia alla funzione deterrente dell’azione giudiziaria, che è massima proprio quando viene esercitata prima che il danno diventi irreparabile.
5.4. L’illusione dell’autonomia privata come rimedio sufficiente
Un altro presupposto errato di questa impostazione è l’idea che i soci, in quanto titolari di diritti patrimoniali e politici, siano in grado di difendersi autonomamente.
La realtà è spesso diversa.
I soci di minoranza hanno accesso limitato alle informazioni (talvolta nullo e privato da amministratori nominati a tempo indeterminato che diventano dittatori del fare e volere sociale).
Il potere assembleare è frequentemente concentrato nelle mani dello stesso amministratore o di un gruppo a lui vicino.
In tali contesti, l’inerzia dell’agire giudiziario nel qualificare la mala gestio come fatto di rilevanza pubblicistica equivale a lasciare, di fatto, impunite le dinamiche di abuso.
5.5. La prospettiva sociologica: dalla privatizzazione della responsabilità alla deresponsabilizzazione sistemica
Quando l’ordinamento lascia intendere che la mala gestio in bonis è un fatto “tra privati”, manda un messaggio culturale chiaro: finché non rovinate l’impresa, potete gestirla come volete: è affare vostro.
Questo messaggio non rimane confinato alla singola vicenda societaria, ma plasma la cultura d’impresa nel suo complesso, abbassando la soglia di attenzione alla legalità e incoraggiando comportamenti opachi.
Si passa così dalla privatizzazione della responsabilità – cioè dalla sua riduzione a un problema di rapporti contrattuali – alla deresponsabilizzazione sistemica, in cui l’intera comunità economica accetta che le regole valgano solo in presenza di fallimenti conclamati.
In sintesi, considerare la mala gestio “in bonis” come un fatto di scarso interesse pubblico non è una scelta neutrale: è una precisa opzione che, nel tempo, erode la fiducia nel sistema economico, depotenzia la disciplina societaria e legittima l’abuso come costo accettabile della prosperità.
- Recuperare la responsabilità preventiva
La mala gestio vive e produce danni anche nelle società sane. Trascurarla in bonis equivale a legittimare un doppio standard: rigore post-crisi e indifferenza pre-crisi.
Da altro punto di vista, questa asimmetria genera un’economia a fiducia decrescente, in cui il rispetto delle regole dipende non dal principio, ma dalla contingenza.
Recuperare la centralità della responsabilità preventiva non è solo un’esigenza tecnica: è un atto di manutenzione del tessuto sociale ed economico del Paese.
L’analisi condotta evidenzia come la progressiva marginalizzazione della mala gestio “in bonis” rappresenti non un mero difetto interpretativo, ma un vulnus strutturale all’ordinamento societario, capace di generare ricadute profonde sia sul piano della tutela giuridica sia sul piano della cultura economica nazionale.
La prassi che circoscrive l’intervento repressivo alle sole situazioni di crisi o dissesto – relegando le condotte gestorie gravemente irregolari, ma compiute in contesti di apparente prosperità, al rango di meri conflitti interni – produce effetti distorsivi che vanno ben oltre il singolo caso. In particolare, svilisce la natura preventiva della disciplina societaria, trasformandola in un diritto “a posteriori” che interviene quando il danno è ormai irreversibile. Di conseguenza indebolisce la fiducia sistemica nel mercato, privando soci, creditori e stakeholder di uno strumento effettivo di tutela anticipata e normalizza l’abuso in assenza di crisi, legittimando una concezione dell’amministrazione societaria come spazio di libertà assoluta fino al verificarsi di un evento patologico conclamato.
È necessario affermare con chiarezza un principio che, sebbene già insito nella ratio legis, oggi necessita di essere ricondotto al centro della prassi giudiziaria: la responsabilità gestoria non è funzione dello stato di salute dell’impresa, ma presidio costante di correttezza, trasparenza e tutela degli interessi coinvolti, pubblici e privati.
Una società di capitali, per la sua intrinseca proiezione esterna, non può essere considerata una “res privata” indifferente alla collettività fino al manifestarsi di un dissesto. La corretta gestione è un bene giuridico di rilevanza pubblica, in quanto contribuisce alla stabilità del mercato, alla tutela del credito, alla concorrenza leale e, in ultima analisi, alla sicurezza del traffico economico.
Occorre, dunque, un duplice cambio di paradigma.
Sul piano giurisprudenziale, valorizzare la portata “ex ante” dell’art. 2392 c.c. e norme correlate, interpretando l’art. 2409 c.c. come rimedio di garanzia anche per le società in bonis, ogniqualvolta si manifestino irregolarità gestorie (anche se all’apparenza non così gravi, posto che spesso sono volutamente mimetizzate e solo l’istruttoria dell’ispezione giudiziaria le fa emergere in tutta la loro gravità e portata) idonee a compromettere la trasparenza e la corretta amministrazione.
Sul piano culturale, promuovere una visione della governance societaria che non misuri la liceità della gestione sul solo metro dell’assenza di dissesto, ma sulla costante aderenza a standard di legalità sostanziale e formale.
Tale rifondazione non può essere affidata alla sola spontaneità interpretativa: richiede un atto di volontà del sistema giuridico nel suo complesso, che coinvolga dottrina, giurisprudenza, organismi di controllo e, non da ultimo, la formazione di manager e professionisti.
Ignorare la mala gestio in bonis equivale a scegliere scientemente di governare il traffico economico con un ordinamento che chiude gli occhi finché la nave galleggia, salvo poi mobilitare ogni mezzo quando ormai affonda. È una scelta non solo inefficiente, ma culturalmente regressiva.
Il diritto societario – se vuole restare fedele alla sua funzione ordinante e preventiva – deve tornare a essere diritto di governo, non diritto di autopsia.

