Dove vuole il Padrone

Dove vuole il padrone

Etica responsabilità e doveri del Consulente di Parte nell’era della delegittimazione del metodo

1. Premessa: la deriva dell’etica tecnica nel processo civile

Nel contesto del processo civile contemporaneo, la figura del Consulente Tecnico di Parte assume un ruolo sempre più centrale, non solo come supporto tecnico dell’avvocato ma come portatore di verità scientifica, spesso in conflitto tra il dovere di oggettività e la pressione della parte assistita. Tale tensione, se non governata da un saldo ancoraggio deontologico e di onesta intellettuale volta a far emergere la verità, può sfociare in condotte gravemente lesive del processo e dell’interesse pubblico alla giustizia.

Il presente elaborato propone una riflessione sull’etica del Consulente Tecnico di Parte, prendendo spunto da un recentissimo caso reale, nel quale una relazione tecnica di un CTP, prodotta in un giudizio civile dalla difesa di una parte, è risultata gravemente lacunosa, strumentale e tecnicamente inattendibile, con ripercussioni evidenti sulla regolarità del contraddittorio e sull’equilibrio del giudizio. L’analisi sarà condotta omettendo nomi e riferimenti.

2. Quando il consulente tace ciò che dovrebbe dichiarare

Ogni elaborato tecnico prodotto da un consulente di parte e destinato a essere utilizzato in sede giudiziale, specie in assenza di un contraddittorio formale con altri ausiliari tecnici, impone al professionista l’adozione di cautele formali e sostanziali di massimo livello (anche perché, con tutta probabilità, chiamato a rendere testimonianza). La prima di queste cautele, imprescindibile sotto il profilo della correttezza metodologica e della trasparenza verso il giudice, è l’esplicita indicazione – all’interno dell’elaborato – che i dati aziendali analizzati sono stati assunti come veritieri, oppure, in alternativa, l’inserimento di un disclaimer tecnico che chiarisca limiti, presupposti e riserve dell’analisi condotta.

Nel caso in esame, il consulente tecnico della parte opponente ha completamente omesso tale dichiarazione di metodo, non precisando in alcun punto del proprio elaborato:

  • se i dati di bilancio utilizzati fossero stati verificati documentalmente o solo assunti acriticamente;
  • se l’analisi fosse condotta in assenza di accesso ai documenti extracontabili o ai flussi primari;
  • se esistessero circostanze di dubbio, incertezza o incompletezza che potessero incidere sulla valutazione.

La relazione, anzi, è scritta con tono assertivo e apodittico, come se i dati presentati non fossero frutto di ricostruzione soggettiva, bensì evidenze oggettive, incontestabili e pienamente attendibili. Nessuna avvertenza viene formulata in merito alla possibilità di rettifiche, modifiche, contenziosi o vicende societarie post-bilancio, benché esse siano note, documentate, pubbliche e, anzi, centrali rispetto alla lite in corso.

Si è così prodotto un elaborato monco di ogni cautela formale, e perciò inidoneo a rivestire qualunque ruolo tecnico nell’ambito del processo, perché viziato nella sua premessa epistemologica: la veridicità dei dati. L’assunto non dichiarato – ma sotteso – secondo cui “tutto ciò che è in bilancio è vero”, rappresenta una semplificazione inaccettabile, ancor più ove il consulente fosse, come nel caso di specie, soggetto abilitato alla revisione legale, perfettamente consapevole del significato e delle responsabilità di simili asserzioni implicite.

Il mancato disclaimer è dunque un errore metodologico grave, che apre la porta a due scenari alternativi, entrambi pericolosi e, sotto il profilo dell’analisi di bilancio finanche inquietanti:

  • o il consulente ha effettivamente verificato i dati e ha taciuto deliberatamente le incongruenze e i profili di rischio;
  • oppure ha deliberatamente rinunciato a ogni attività critica, accettando i dati contabili come dogma, in violazione di qualunque standard

In entrambi i casi, viene meno il presupposto minimo di un contributo tecnico: la fondatezza metodologica e l’onestà intellettuale. Il risultato, inevitabilmente, è quello di un elaborato privo di autonomia scientifica, e che dovrebbe essere radicalmente escluso dal novero degli strumenti utili al giudicante, poiché costruito non sulla base della verifica, ma sulla base dell’adesione.

Il compito del consulente tecnico non è certificare ciò che la parte desidera, ma selezionare e interpretare criticamente ciò che è disponibile, dichiarando con lealtà intellettuale i limiti dell’analisi. In assenza di questa dichiarazione, ogni relazione diventa un atto di fede, non un documento tecnico. Ed è precisamente ciò che è accaduto nel caso che segue.

2.1. L’obbligo di dichiarare l’assenza di revisione contabile: un’omissione inaccettabile

Un elemento metodologico di primaria importanza, che in questo caso è stato deliberatamente omesso, riguarda la necessità di dichiarare – in modo chiaro e inequivoco – se i dati contabili utilizzati siano stati sottoposti a revisione o, al contrario, assunti come veri in base alle dichiarazioni dell’amministratore.

Nel caso di specie, il consulente tecnico di parte non ha svolto alcuna attività di revisione legale o di verifica diretta dei dati di bilancio 2023 e 2024 della società analizzata. Egli ha assunto i valori come veritieri perché tali risultavano, evidentemente, dalle sole attestazioni dell’organo amministrativo. Questa circostanza, di per sé, non sarebbe censurabile se fosse stata esplicitamente dichiarata in apertura di relazione, ponendo il lettore – e, soprattutto, il giudice – nella condizione di comprendere che l’elaborato si fonda sull’assunzione di veridicità di dati forniti dalla parte assistita, e non su una verifica indipendente.

Il mancato chiarimento produce un duplice effetto distorsivo:

  • crea l’illusione (finanche al giudicante) di un’analisi verificata, quando in realtà è un’elaborazione di dati – non autonomamente verificati – forniti da parte interessata;
  • occulta il rischio metodologico, ovvero che, se anche solo una voce di bilancio fosse inesatta o incompleta, tutte le conclusioni dell’analisi risulterebbero automaticamente sfalsate e inattendibili.

Questo aspetto è tanto più grave se si considera che l’elaborato era destinato a essere utilizzato in sede giudiziale per sostenere una tesi difensiva. In tale contesto, l’assenza di una clausola esplicita del tipo:

“Il sottoscritto non ha svolto attività di revisione legale o di verifica contabile sui dati oggetto di analisi, che sono stati assunti come veri sulla base delle dichiarazioni e dei documenti forniti dall’amministratore. Dati, sulla cui veridicità e attendibilità lo scrivente nulla può confermare”

costituisce una violazione del dovere di trasparenza e completezza dell’informazione tecnica.

Una simile avvertenza non è un mero formalismo: delimita l’ambito di affidabilità delle conclusioni e avverte il giudice che l’esito dell’analisi dipende dalla correttezza dei presupposti contabili. Nel caso concreto, ciò era tanto più necessario poiché i dati di riferimento hanno subìto una rettifica successiva (con iscrizione di fondo rischi per passività da contenzioso, nella precedente versione del bilancio indicati tra i debiti commerciali), con effetti rilevantissimi su indici e giudizi di solidità. In assenza di tale disclaimer, l’elaborato veicola – implicitamente ma ingannevolmente – l’idea di una verifica già svolta o di una affidabilità piena dei numeri, che non sussiste. Ne discende che se i dati fossero diversi o incompleti, le stime sugli indici (indebitamento, copertura, redditività) e le conclusioni sulla “solidità” risulterebbero sfalsate e potenzialmente fuorvianti per il decisore. In sintesi: senza la clausola di assunzione e senza procedure di verifica, l’analisi non è neutra, ma condizionata e – come tale – tale circostanza va dichiarata apertamente.

Omettere questa precisazione significa lasciare intendere – implicitamente e falsamente – che i dati siano stati oggetto di una qualche forma di validazione professionale. In realtà, la relazione si fonda su presupposti informativi forniti dalla parte stessa, con un evidente conflitto di interessi e un’assenza totale di verifica indipendente.

3. L’effetto sistemico: rischio di delegittimazione della consulenza tecnica di parte

La produzione di relazioni tecnico-contabili che “attaccano il ciuccio dove vuole il padrone” non danneggia solo la controparte o il processo: danneggia la fiducia nel sistema della giustizia tecnica. Alimenta una prassi pericolosa per cui:

  • il consulente non è più soggetto autonomo e tecnico, ma attore strategico della parte;
  • la verità contabile ed economica si piega alla narrazione processuale;
  • il processo civile perde il proprio fondamento probatorio, diventando un campo di battaglia tra verità parallele e tendenziose.

Inoltre, il giudice, si trova a dover valutare elaborati opachi, incompleti, unilateralmente ottimistici, col rischio di fondare decisioni su valutazioni alterate. E dunque ricorrere alla CTU.

4. L’etica del consulente tecnico di parte: autonomia, indipendenza, dovere di verità

Il Consulente della parte non è un perito privato assoldato per sostenere ciecamente la tesi della parte che lo ha nominato. Il suo ruolo è quello di fornire un apporto tecnico critico e qualificato, ma non asservito, pur all’interno di un legittimo orientamento di parte.

Le Norme di comportamento professionale del CNDCEC impongono al professionista, qualunque sia il ruolo che esso assume:

  • indipendenza di giudizio;
  • correttezza, veridicità e completezza;
  • dovere di astensione in caso di conflitto insanabile tra verità e interesse della parte.

Inoltre, il Codice Deontologico dei commercialisti vieta espressamente di produrre elaborati in contrasto con le risultanze documentali o con l’effettiva realtà economica dei fatti.

Nel caso di specie il consulente tecnico ha sistematicamente alterato, omesso o riformulato i dati economici rilevanti, utilizzando tecniche che vanno oltre la semplice negligenza: la coerenza e la convergenza dell’errore su un’unica direzione (l’assoluzione dell’opponente) evidenziano un dolo metodico, non un’imprecisione episodica.

La relazione non è un documento tecnico: è una costruzione strumentale in cui la ragione della parte ha surclassato il dovere di verità.

Il caso oggetto di questo studio rappresenta un grave tradimento della funzione tecnica del consulente di parte: chi, nell’esercizio della propria professione, occulta elementi chiave, manipola indicatori, ignora passività rilevanti, simula solidità inesistente, non è un consulente, ma un artefice della menzogna.

Il caso analizzato, per quanto circoscritto, rappresenta una deriva professionale tutt’altro che episodica: la tendenza crescente di consulenti tecnici di parte a trasformarsi in strumenti di strategia giudiziaria, abdicando a qualunque funzione tecnico-critica, minaccia non solo il buon esito dei singoli giudizi, ma l’equilibrio del sistema giurisdizionale nel suo complesso.

Un approccio professionale come quello analizzato, in cui:

  • si assumono i dati contabili come veri senza averlo dichiarato;
  • si omette qualsiasi disclaimer metodologico;
  • si tacciono circostanze dirompenti (es. contenzioso attivo, rettifiche postume, fondi rischi);
  • si alterano gli indici fondamentali di valutazione (come il Debt/Equity);
  • si interpreta ogni cifra con finalità persuasive e non tecniche,

non costituisce soltanto una violazione delle regole deontologiche del commercialista o del revisore legale, ma altera il gioco del processo. Il consulente tecnico di parte, se impunemente trasformato in ventriloquo della convenienza, finisce per assumere un ruolo pericoloso, poiché riveste di autorità “neutrale” ciò che in realtà è una costruzione strumentale e soggettiva.

Nel momento in cui una relazione tecnica viene prodotta fuori dal circuito della consulenza d’ufficio, e cioè senza contraddittorio tecnico e senza possibilità di controllo ex ante da parte del giudice, essa deve essere redatta con un rigore superiore, e non inferiore, rispetto alle CTU. Se questo non accade, il perito di parte diventa una figura destabilizzante, un moltiplicatore di distorsione, un veicolo di verità apparente capace di influenzare decisioni giudiziali fondate su basi erronee o incomplete.

Tale fenomeno non può essere tollerato né ignorato. La tutela dell’integrità del processo impone che la comunità professionale e quella giurisdizionale:

  • stigmatizzino pubblicamente tali condotte;
  • introducano clausole vincolanti di trasparenza e dichiarazione metodologica obbligatoria;
  • e prevedano forme di responsabilità aggravata in caso di elaborati tecnici che, pur sotto l’egida della parte, siano utilizzati in giudizio come prove documentali.

Chi redige relazioni economico-patrimoniali da allegare in sede giudiziaria non può mimetizzarsi dietro l’incarico di parte, né rifugiarsi nella eventualità di una CTU che il giudicante potrà disporre, per sottrarsi agli obblighi di indipendenza, verità, completezza, prudenza e lealtà. Un professionista che compie queste omissioni o manipolazioni non è un tecnico, ma un redattore strategico. E come tale, non dovrebbe trovare spazio nel processo, né fiducia nella comunità professionale.

La posta in gioco non è una singola causa: è la credibilità della funzione tecnica nell’amministrazione della giustizia.

Il consulente di parte deve ricordare di essere:

  • soggetto ausiliario della verità;
  • testimone tecnico delle evidenze documentali;
  • funzionario della responsabilità intellettuale

5. Il paradosso del pronome possessivo: quando il tecnico diventa cosa

In un gioco beffardo della semantica, viene in mente il pronome inglese “my” – che significa “mio” – diventa chiave per comprendere una delle derive più gravi della consulenza tecnica di parte: la trasformazione dell’autonomia in appartenenza, dell’indipendenza in sottomissione.

Nel momento in cui il tecnico scrive per compiacere, perde la sua autonomia: smette di essere consulente e diventa cosa del suo padrone. Ogni relazione tecnica priva di indipendenza non è più uno strumento di verità, ma un atto di obbedienza mascherato da scienza.

Infatti, nel mondo anglosassone, “my” significa “mio”. È un pronome possessivo, ma anche un’affermazione implicita di dominio: ciò che è “my” appartiene a me, e dunque non è libero.

Il termine inglese “my” significa letteralmente “mio” ed è l’aggettivo possessivo della prima persona singolare. È uno dei primi vocaboli appresi da ogni anglofono, poiché incarna la dimensione dell’appartenenza soggettiva. “my car“, “my name“, “my truth“: tutto ciò che segue quel pronome è qualcosa che mi appartiene, che controllo, che definisce la mia sfera di dominio.

Ma proprio per questo, il pronome “my” veicola un messaggio sottile ma potente: ciò che è “mio” non è libero. È sotto il mio controllo, o peggio, è plasmato dalla mia volontà. Traslato nel mondo professionale, tale concetto assume connotati inquietanti: se una relazione tecnica diventa davvero “my report” nel senso possessivo, e non solo autoriale, allora non è più uno strumento autonomo, ma un veicolo di interesse soggettivo.

Quando un consulente tecnico redige una relazione che assume come vere, senza dichiararlo, le affermazioni della parte che lo ha incaricato, egli finisce per trasformare il proprio ruolo in una dichiarazione involontaria di subalternità.

Quella relazione non è più una riflessione autonoma, ma un oggetto di proprietà altrui: è “my paper“, “my report“, non perché l’ha scritto lui, ma perché è del suo padrone.

È una resa lessicale e professionale: l’identità è inghiottita dalla dipendenza, e l’atto tecnico si fa servile, caricando il pronome di un peso etico che va ben oltre l’anagrafe.

Quando un consulente dimentica la propria funzione critica e si pone al servizio della volontà unilaterale della parte, il suo “my” non indica più identità, ma appartenenza. Non è più un consulente: è un oggetto in mano d’altri. E con lui, si svuota la funzione stessa dell’ausilio tecnico nel processo civile.

Nel momento in cui il tecnico scrive per compiacere, il suo “my” non indica più un’identità, ma una debacle: ha smesso di essere consulente, ed è diventato cosa del suo padrone. Utilizzando il termine inglese “my” (mio), la relazione tecnica si trasforma in una dichiarazione di proprietà e non di autonomia.

Ogni volta che si cede alla tentazione di “scrivere quello che fa comodo”, si tradisce la fiducia della collettività, si degrada la professionalità individuale, e si semina sfiducia nel sistema della giustizia.

È tempo che l’intera categoria dei consulenti tecnici, in primis quella dei commercialisti, si interroghi sul proprio ruolo e sull’urgenza di un’etica non neutra ma attiva, non formale ma sostanziale, non di facciata ma di contenuto.

6 Conclusione: il rischio da scongiurare di una resa semantica, tecnica e morale

L’intera analisi compiuta si riassume in una constatazione netta e amara: la consulenza tecnica di parte, se priva di etica e indipendenza, non è più un ausilio alla verità, ma uno strumento di manipolazione del processo. L’utilizzo simbolico del pronome anglosassone “my” ha avuto il compito di illuminare, attraverso un parallelismo linguistico, la tragica deriva culturale e deontologica del tecnico che dimentica di esserlo.

Ciò che distingue un consulente tecnico da un redattore propagandistico è la capacità di dichiarare i presupposti del proprio lavoro, di affermare il vero, di esprimere il dubbio, di non occultare il rischio e di non sposare la tesi della parte. Quando invece il tecnico si comporta da “proprietà” intellettuale della parte che lo ha incaricato, smette di fare scienza e inizia a costruire retorica.

Il tecnico che redige un elaborato consapevole che verrà utilizzato in giudizio civile – senza dichiarare se e quali verifiche ha svolto sulla veridicità dei dati analizzati – si espone a una responsabilità che non è solo civile, penale e tecnica, ma prima di tutto morale.

La verità contabile non è negoziabile: chi la altera non è tecnico, è complice.

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito fa uso di cookie per migliorare l’esperienza di navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’utilizzo del sito stesso. Utilizziamo sia cookie tecnici sia cookie di parti terze per inviare messaggi promozionali sulla base dei comportamenti degli utenti. Può conoscere i dettagli consultando la nostra privacy policy. Proseguendo nella navigazione si accetta l’uso dei cookie; in caso contrario è possibile abbandonare il sito.