Donna. Avvocato.
La toga pesa. Ma la coscienza di più
Lunedì, ore 6:35
Non servirebbe la sveglia: il pensiero del processo di oggi mi ha già svegliata.
Apro gli occhi prima ancora di capire dove sono. A letto, ma la mente è già in tribunale. C’è un caso complicato in agenda. Il mio assistito ha paura. Anch’io, a essere sincera, ma non posso mostrarglielo.
In cucina c’è silenzio e odore di caffè. Lo sorseggio davanti alla finestra. L’alba mi ricorda che ricomincia la corsa. E io, ogni giorno, metto le scarpe da atleta e corro. Verso il diritto, verso la giustizia, verso il senso profondo di ciò che faccio. Anche se a volte non lo vedo più.
Martedì, ore 23:17
Quando torno a casa, il mondo dorme. Sul divano ci sono i libri aperti che ho lasciato stamattina, sulle scale una toga buttata via in fretta. Ho fatto tardi: una telefonata urgente di un cliente disperato, un’udienza finita male, mille notifiche sul cellulare.
Mi siedo e piango. Un momento solo. Non per debolezza, ma per svuotarmi. Perché essere donna e avvocato richiede una forza che non si misura in ore lavorate, ma in sogni sacrificati, silenzi ingoiati, traguardi piccoli raggiunti a fatica.
Poi mi asciugo le lacrime, raccolgo la toga e la sistemo. Con rispetto. Perché anche oggi ha fatto il suo dovere. E io pure.
Mercoledì, ore 15:42
“Lei è diversa dagli altri avvocati” mi ha detto una cliente oggi. Era la sua prima volta in tribunale, tremava. L’ho guardata negli occhi prima di parlare, perché in quegli occhi c’era tutto: paura, vergogna, speranza.
La verità è che ogni giorno difendo molto più che persone: difendo voci che tremano, storie che rischiano di non essere ascoltate, dignità che vacillano. E ogni parola detta in aula è un tentativo di dare peso a chi non ne ha.
A volte ci riesco, a volte no. Ma ogni volta ci provo. È questa, forse, la vera giustizia.
Giovedì, ore 18:58
Oggi ho incrociato una collega nel corridoio del tribunale. “Non so come fai”, mi ha detto. Sorridevo, ma dentro ero esausta anch’io. Il problema non è solo il lavoro. È che siamo schiacciati da una macchina che non rallenta. Normative, scadenze fiscali, responsabilità enormi. E pochissimo margine per sbagliare.
Abbiamo abdicato all’idea che la nostra sia una vocazione. Ora è una corsa a ostacoli. Eppure, continuo a correre. Perché ogni tanto, anche solo per un attimo, succede qualcosa che mi ricorda perché lo faccio: una causa vinta, un cliente che ti guarda con gratitudine, una verità che trova la forza di venire a galla.
Sabato, ore 13:05
Oggi non lavoro. O quasi. Ho deciso di cucinare per la mia famiglia. Tagliatelle fatte a mano — non accade spesso. Mentre impasto, sento la schiena che duole. La toga pesa, ma anche le tensioni. Eppure, in questo gesto semplice, ritrovo un pezzo di me. L’equilibrio non è l’assenza di peso, ma la capacità di ricordare chi sei anche quando sei stanca.
Ho iniziato a fare l’avvocato per cambiare il mondo. Ora mi basterebbe non lasciarmi cambiare da lui. E ogni volta che riconosco la mia voce — anche fuori da un’aula di tribunale — vinco.
Domenica, ore 20:30
Questo diario non è un atto di debolezza. È un atto di memoria. Per non dimenticare quanta forza ci vuole a restare umani in una professione che ti chiede ogni giorno di essere macchina.
Ci sono lati oscuri, sì: lo stress, le scadenze, il senso di solitudine, l’eccessiva pressione. Ma ci sono anche lati luminosi che resistono: la gratitudine, la dignità, la consapevolezza di dare voce a chi non ce l’ha. E, soprattutto, c’è una comunità silenziosa di donne e uomini che, come me, ogni giorno scelgono — nonostante tutto — di credere nella giustizia.
La toga è pesante. Ma la coscienza di più. E finché avrò voce, continuerò a usarla. Per gli altri.
E per me.

