Il rischio di un illecito sistemico travestito da prevenzione
L’abuso dell’amministratore giudiziario che impone consulenti alla società vigilata
Negli ultimi tempi si è assistito a un’estensione sempre più ampia dell’ambito applicativo del controllo giudiziario previsto dall’art. 34-bis del D.lgs. 159/2011, con una progressiva traslazione dell’istituto dalla sua originaria finalità antimafia verso ambiti del tutto estranei alla criminalità organizzata, come nel caso delle indagini per sfruttamento del lavoro e caporalato ex art. 603-bis c.p.
Proprio in tale contesto, si sta diffondendo una prassi tanto subdola quanto lesiva dei diritti fondamentali dell’imprenditore: l’amministratore giudiziario, nominato per vigilare sulla regolarità della gestione, si presenta presso l’azienda accompagnato da propri consulenti fiduciari, privi di formale incarico giudiziario, che accedono liberamente a dati sensibili, vengono messi a parte di informazioni riservate e vengono poi “proposti” all’impresa sottoposta alla misura per l’affidamento di incarichi professionali con compensi a carico della stessa.
Appare di inaudita gravità il comportamento dell’amministratore giudiziario che, nel contesto dell’esecuzione di una misura di controllo ex art. 34-bis D.Lgs. 159/2011, si presenti alla guida della società sottoposta alla misura avvalendosi di consulenti “anomali” e “ambigui”, spesso privi di reale trasparenza curricolare, e comunque estranei alla struttura societaria preesistente, senza aver previamente verificato l’idoneità, il curriculum, l’esperienza e lo standing dei professionisti già incaricati dalla società stessa – frequentemente parte di gruppi imprenditoriali di elevato profilo, talora anche con strutture di compliance e revisione sottoposte a controlli internazionali. L’imposizione unilaterale e opaca di propri consulenti – sovente legati da rapporti fiduciari non dichiarati con l’amministratore giudiziario – integra una condotta non solo censurabile sotto il profilo della correttezza amministrativa, ma anche potenzialmente foriera di gravi danni alla continuità aziendale, alla reputazione dell’impresa e all’efficacia della stessa misura di controllo. Tale prassi configura una deviazione funzionale dall’obiettivo della norma, che è quello di affiancare – non sostituire – l’impresa nel suo percorso di legalità, e si presta ad alimentare dubbi circa la reale terzietà e indipendenza del soggetto investito della funzione giudiziaria, con ricadute dirompenti sul piano dell’affidamento del mercato e degli stakeholders nei confronti dell’istituto stesso del controllo giudiziario.
Si tratta di un’anomalia istituzionale, che, lungi dal perseguire la legalità, la svuota dall’interno, travolgendo il principio di proporzionalità, la libertà d’impresa, la riserva di legge e persino il diritto alla tutela della riservatezza. Di questo fenomeno – sempre più frequente, ma ancora troppo poco denunciato – si intende offrire una ricostruzione rigorosa e una ferma censura.
Nel contesto dell’applicazione del controllo giudiziario ai sensi dell’art. 34-bis del D.lgs. 159/2011 non per rischio mafioso, ma quale misura cautelare atipica connessa a ipotesi di sfruttamento del lavoro e caporalato (art. 603-bis c.p.), emergono gravi criticità sistemiche e interpretative che impongono un immediato ripensamento della prassi giudiziaria e dell’operato di taluni amministratori giudiziari.
La misura, in questi casi, non interviene per neutralizzare presunti legami con la criminalità organizzata, ma per sanare – ove esistenti – disfunzioni gestionali e irregolarità lavoristiche. Si tratta di una funzione correttiva e non punitiva, fondata su una logica di affiancamento e vigilanza, non di spossessamento. Proprio per questo motivo, qualsiasi comportamento che alteri il perimetro funzionale della misura, incidendo sull’autonomia della società, assume connotati di grave illegittimità e lesione dei diritti fondamentali dell’impresa.
Tuttavia, una prassi sempre più diffusa e profondamente distorsiva rischia di trasformare la misura in un surrettizio commissariamento, generando effetti antitetici rispetto alla ratio legis: l’imposizione, da parte dell’amministratore giudiziario, di consulenti esterni non nominati dal giudice, ma da lui “proposti” e fatti introdurre fin dal primo accesso in azienda, spesso con il pretesto di necessità tecniche o gestionali.
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Una forzatura grave: il consulente “al seguito” dell’amministratore giudiziario
Che uno o più professionisti si presentino presso la sede della società vigilata insieme all’amministratore giudiziario, partecipi al primo accesso, e venga espressamente autorizzato da quest’ultimo ad acquisire visione – e talvolta copia – di dati sensibili, riservati, strategici, commerciali o contabili, senza alcun incarico e formale provvedimento autorizzativo del tribunale, è circostanza di una gravità giuridica assoluta. Neppure sanabile ex post.
Ad esempio, nel caso specifico delle misure volte a colpire ed eliminare gravi comportamenti di caporalato, tali dati spesso includono anche informazioni su lavoratori irregolari, flussi occupazionali, retribuzioni, rapporti con fornitori di manodopera, posizioni contributive e contrattuali, ovvero materiale altamente sensibile sul piano privacy, reputazionale e occupazionale. Consentirne l’accesso a soggetti privi di qualifica pubblicistica o preventiva nomina formale integra un trattamento illecito di dati personali e una violazione grave del segreto aziendale; e forse altro.
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La mascherata proposta di incarico: la libertà d’impresa svuotata dall’interno
Ancor più insidiosa è la prassi, volutamente mascherata da mera proposta, in cui l’amministratore giudiziario “impone” alla società di conferire incarico formale a detti consulenti da lui autonomamente individuati, spesso giustificando tale indicazione con la pretesa urgenza o con la necessità di “collaborazione tecnica”.
Tale comportamento è palesemente abusivo, per almeno due ordini di ragioni: perché uno sviamento di potere da parte dell’amministratore giudiziario che eccede i limiti funzionali del proprio mandato, assumendo un ruolo propositivo e sostitutivo della volontà imprenditoriale, che gli è radicalmente precluso; perché configura un danno ingiusto per l’impresa la quale, sotto la pressione del controllo giudiziario, si trova costretta a formalizzare un incarico a soggetti che non ha scelto, che non conosce, e che comportano ulteriori rilevanti oneri economici, con la conseguenza paradossale di subire un nocumento economico generato proprio da colui che dovrebbe tutelarne la legalità e l’interesse aziendale.
E allora la domanda sorge spontanea: come si può anche solo ipotizzare che l’impresa sottoposta a misura accetti che tali soggetti del tutto delegittimati entrino in modo dirompente ed assoluto in possesso dei dati aziendali? La risposta è semplice e una sola: non può.
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La via corretta: la nomina come coadiutore giudiziario
Se l’amministratore giudiziario ravvisa l’esigenza di avvalersi di figure tecniche, può e deve – ai sensi dell’art. 41 del D.lgs. 159/2011 – chiederne la nomina formale come coadiutori, previa istanza al tribunale. Solo in questo modo il loro intervento sarà coperto da provvedimento giurisdizionale – con indicazione di funzioni, limiti e compensi -, sarà garantita la trasparenza dell’azione di vigilanza e saranno rispettati i principi di terzietà, imparzialità e proporzionalità.
In assenza di tale rituale nomina, qualsiasi attività compiuta da tali soggetti dovrebbe essere dichiarata radicalmente nulla, e l’amministratore giudiziario dovrebbe rispondere, sia in sede giudiziaria che disciplinare, per l’abuso di funzione.
Ma il fatto forse più rilevante è che una tale prassi occulta è, nei fatti, sottratta al controllo del giudice e imposta in un clima di soggezione.
Infatti, ciò che rende ancor più grave e insidiosa la prassi descritta è che essa non trova alcuna copertura né preventiva né successiva da parte dell’Autorità Giudiziaria procedente, la quale, nella maggior parte dei casi, resta del tutto ignara dell’introduzione di soggetti terzi – diversi da coadiutori ritualmente autorizzati dal tribunale stesso – all’interno dell’impresa vigilata e dell’imposizione di consulenze a carico della stessa. L’amministratore giudiziario agisce infatti in modo unilaterale e discrezionale, assumendo iniziative che trascendono i limiti funzionali del mandato ricevuto, senza presentare istanze, senza attendere autorizzazioni, e – soprattutto – senza rendere edotto il Tribunale.
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Un’ingerenza taciuta al Tribunale: costi occulti, accessi non autorizzati e “proposte” indebitamente imposte all’impresa
È necessario sottolineare con fermezza che il Tribunale che dispone la misura di controllo giudiziario ex art. 34-bis D.lgs. 159/2011 non solo non è preventivamente informato di tale illegittimo modo di agire e dei costi dei consulenti introdotti dall’amministratore giudiziario, ma – fatto ancor più grave – ignora totalmente che tali soggetti abbiano avuto accesso all’impresa sin dal primo giorno della misura, senza alcuna autorizzazione e senza che fosse mai formalizzata alcuna nomina ufficiale. Il loro ingresso avviene in modo surrettizio, sulla base di un rapporto con l’amministratore giudiziario definito fiduciario, che li presenta come collaboratori “tecnici” o “necessari” e ne consente l’operatività, senza coinvolgere in alcun modo il giudice competente.
A rendere il quadro ancora più inaccettabile è il fatto che, solo in un momento successivo, l’amministratore giudiziario suggerisce all’impresa di formalizzare e quindi conferire l’incarico diretto a questi soggetti, con l’apparente finalità di legittimare retroattivamente una presenza e un’attività già svolta in modo informale. Si tratta, all’evidenza, di una manipolazione dell’equilibrio istituzionale tra organo giudicante e ausiliario, nella quale quest’ultimo non solo agisce ultra vires, ma induce la società vigilata – sotto pressione e spesso in stato di necessitata acquiescenza – ad avallare un comportamento opaco e finanche illecito, trasformandolo in atto negoziale apparente.
Se tale dinamica fosse portata formalmente all’attenzione del Tribunale, non potrebbe non determinare l’immediata revoca dell’amministratore giudiziario, ai sensi dell’art. 35 del D.lgs. 159/2011, per grave violazione dei doveri di correttezza, trasparenza e legalità. Ma vi è di più: una volta accertato l’accesso non autorizzato ai luoghi aziendali da parte di soggetti privi di qualsiasi investitura giurisdizionale, e l’acquisizione da parte loro di dati e informazioni riservate, il Tribunale dovrebbe assumere i provvedimenti urgenti che gli competono tra cui senz’altro trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica, per le opportune valutazioni di propria competenza.
Al contrario, tale condotta, ove tollerata o sottovalutata, delegittimerebbe l’intero sistema delle misure di prevenzione, ponendo l’amministratore giudiziario in una posizione di fatto incontrollata e trasformando la misura da strumento di garanzia in strumento di arbitrio.
Ancor più allarmante è il fatto che l’impresa difficilmente riesce a reagire o a denunciare formalmente tali abusi, in quanto inserita in un contesto di oggettiva soggezione psicologica e processuale. L’imprenditore, già sottoposto a misura di controllo e spesso in attesa di decisioni sulla prosecuzione dell’attività o su eventuali esiti sanzionatori, teme che una contestazione aperta dell’operato dell’amministratore possa essere interpretata come segno di ostilità verso la legalità o come forma di non collaborazione. Ne deriva una forma larvata ma concreta di coercizione indiretta, che conduce a una sostanziale acquiescenza, tanto più subdola quanto più vestita della fittizia apparenza della “proposta collaborativa”.
In questo scenario, si assiste a una pericolosa eterogenesi dei fini: lo strumento concepito per ripristinare la legalità e il corretto funzionamento dell’impresa viene utilizzato per introdurre costi spesso non necessari, per esporre dati aziendali riservati a soggetti non autorizzati, e per alterare gli equilibri gestionali interni senza alcun controllo giudiziario effettivo. È urgente, pertanto, che l’Autorità Giudiziaria riprenda pienamente il controllo sul perimetro operativo dell’amministratore giudiziario, esigendo rendicontazioni puntuali, atti autorizzativi specifici e piena trasparenza nella gestione di ogni risorsa e nella selezione di eventuali collaboratori.
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La minaccia implicita: quando il controllo si trasforma in leva di pressione psicologica
Una delle degenerazioni più subdole e gravi del controllo giudiziario, nella prassi deprecabile che si va di rado osservando, è rappresentata dalla minaccia non dichiarata, ma chiaramente insinuata, secondo cui l’eventuale rifiuto da parte della società di seguire le “indicazioni” dell’amministratore giudiziario – in particolare riguardo alla nomina dei professionisti da lui proposti – potrebbe comportare un allungamento piuttosto che una pericolosa deriva della misura stessa. Non si tratta, in questi casi, di una minaccia espressa in termini formali o verbali, ma di un sottinteso che grava come una cappa sull’interlocuzione fra impresa e amministratore, rendendo ogni scelta apparentemente libera, in realtà condizionata da un vincolo psicologico asfissiante.
L’idea che il mancato “adeguamento” alle aspettative dell’ausiliario giudiziario possa rallentare il percorso verso la normalizzazione, o addirittura pregiudicare la valutazione della collaborazione aziendale, costituisce una forma di pressione indebita, che svuota di significato ogni consenso successivo. In un sistema ispirato al diritto e alla libertà negoziale, non può esistere collaborazione se questa è estorta mediante il timore di ritorsioni istituzionali, benché non formalizzate.
Tale atteggiamento – insinuante, ambiguo, e per questo ancor più insidioso – viola frontalmente il principio di leale collaborazione tra amministratore giudiziario e impresa, oltre a determinare una lesione del diritto alla libera autodeterminazione negoziale. Si genera, in altri termini, una forma di obliqua intimidazione istituzionale, che dissimula il comando sotto il velo della proposta, e maschera il ricatto dietro l’apparente ragionevolezza dell’indicazione.
Chi, investito di una funzione pubblica, strumentalizza il proprio ruolo per orientare le scelte dell’impresa sotto minaccia implicita di aggravamento della misura – tanto più in assenza di comportamenti ostativi o ostruzionistici – abusa della propria posizione di garanzia, trasformandola in leva di dominio.
In tali casi, l’Autorità Giudiziaria, se resa edotta, non può che intervenire con fermezza, poiché ciò che si configura non è solo un illecito deontologico, ma una patologia istituzionale, che compromette l’intero equilibrio fiduciario su cui si fonda la misura di controllo. Una minaccia non dichiarata è forse ancor più pericolosa di una esplicita, perché si insinua nel linguaggio, nei gesti, nelle attese, rendendo il diritto opaco e la vigilanza una forma di potere privato privo di trasparenza e di contraddittorio.
Tanto più grave si rivela tale condotta ove si consideri che la funzione dell’amministratore giudiziario è, per definizione, strumentale al rigoroso rispetto della legalità e finalisticamente orientata al suo ripristino nei casi in cui l’impresa ne abbia violato i presupposti: agire in difformità da tali parametri, piegando la funzione a logiche opache o autoreferenziali, equivale a tradire la ratio stessa della misura e a compromettere la fiducia dell’ordinamento nell’efficacia degli strumenti di prevenzione.
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Conclusioni: la misura giusta nel modo sbagliato è essa stessa ingiustizia
Nel riflettere sulle distorsioni esaminate, non si può che constatare con amarezza come una misura concepita per garantire legalità, trasparenza e regolarità, finisca – nelle prassi più opache – per negare proprio quei valori che dovrebbe custodire. Il controllo giudiziario, quando travalica i suoi confini e si trasforma in arbitrio mascherato da vigilanza, cessa di essere strumento di prevenzione e diventa esercizio di potere non autorizzato, privo di quella legittimazione democratica che sola può giustificare la limitazione dei diritti fondamentali.
Non si tratta, qui, di meri formalismi procedurali.
Al contrario: la forma è garanzia di giustizia.
Come scriveva Norberto Bobbio, “la legalità è la condizione minima della libertà”, e ogni potere che si esercita al di fuori del quadro normativo, anche se animato da buone intenzioni, diventa pericoloso, arbitrario, e alla lunga dannoso per il tessuto civile. Un’amministrazione giudiziaria che introduce soggetti terzi in azienda senza alcuna autorizzazione, che ne copre l’operato con silenzi e finzioni, e che suggerisce all’impresa – sotto misura – di legittimare a posteriori tale operato accollandosi pure i costi, compie un abuso che non è solo giuridico, ma anche morale.
In un ordinamento che si vuole fondato sul rispetto della persona e sull’equilibrio dei poteri, non è ammissibile che l’autorità giurisdizionale venga privata della conoscenza effettiva di quanto accade sotto il suo mandato, e che l’impresa, spesso colpita in una fase ancora meramente cautelare o in attesa di accertamenti definitivi, venga posta nella condizione paradossale di dover subire una doppia ingiustizia: la misura e l’arbitrio di chi dovrebbe vigilare su di essa.
È in questi momenti che si misura la tenuta dello Stato di diritto.
Il filosofo Michael Sandel ci ricorda che “fare giustizia significa dare alle persone ciò che è loro dovuto, ma anche trattarle come esseri umani dotati di dignità e capacità di scegliere”. Ogni volta che una prassi – pur tecnicamente marginale – finisce per svuotare la volontà negoziale dell’impresa, per aggirare il controllo del giudice, per trasformare la prevenzione in imposizione, viene violata la dignità dell’ordinamento, non meno che quella del singolo soggetto vigilato.
Per questo, la tolleranza verso tali condotte non può essere giustificata in nome dell’efficienza o della consuetudine. La legittimità dell’azione pubblica non si misura sull’abitudine, ma sulla coerenza con i principi supremi della Costituzione: legalità, proporzionalità, rispetto della persona. Chi accetta prassi abusive perché “funzionali” o “rapide” si rende complice di una deriva silenziosa, ma inesorabile.
Sta ora a chi ne ha il potere interrompere questo scivolamento verso forme para-commissariali mai autorizzate dalla legge, restituendo al controllo giudiziario la sua vera natura: strumento di presidio, e non di sostituzione; di garanzia, e non di sopraffazione.
In definitiva, non basta che una misura sia giusta nei fini: deve esserlo anche nei mezzi e nei modi. Altrimenti, come ammoniva Pascal, “la giustizia senza forza è impotente; ma la forza senza giustizia è tirannide”.