L’azienda oltre l’imprenditore

L’azienda oltre l’imprenditore

Valorizzazione concreta della continuità aziendale e chiara distinzione delle responsabilità nella crisi d’impresa

Premessa

Ora più che mai, occorre una distinzione ontologica e funzionale tra azienda e imprenditore nei procedimenti di regolazione della crisi.

Il Codice della Crisi e dell’Insolvenza ha spostato l’asse normativo dalla mera liquidazione punitiva verso la valorizzazione della continuità aziendale. Ciò impone un’operazione concettuale: l’azienda è un bene organizzato e produttivo, non un’estensione morale o giuridica dell’imprenditore (e soprattutto delle sue scelte e responsabilità). Confondere i due piani significa tradire la ratio legis.

L’azienda produce reddito, occupazione, innovazione e servizi. È parte di un ecosistema relazionale e territoriale che va ben oltre la figura personale del suo gestore. In un contesto di crisi diffusa, distruggere un’azienda per punire l’imprenditore significa creare un danno collettivo a fronte di una colpa individuale.

La giustizia civile e penale ha strumenti idonei e sufficienti per sanzionare l’imprenditore colpevole del suo insuccesso e del suo dissesto. Ma il processo economico deve essere orientato alla conservazione del valore residuo. L’identificazione tra azienda e imprenditore è un errore che indebolisce l’efficacia del sistema nel raggiungimento dei suoi obiettivi: soddisfazione dei creditori, salvaguardia occupazionale, stabilità produttiva.

Le crisi aziendali, specie in settori strategici o in aree economicamente fragili, hanno effetti moltiplicativi. Una gestione intelligente e selettiva delle crisi, fondata sulla distinzione tra soggetto e oggetto, può trasformare l’insolvenza da fallimento in opportunità di rigenerazione.

In un’economia matura, avvocati, commercialisti, magistrati, banche, funzionari dell’erario e degli enti previdenziali e advisor devono essere custodi del valore e non strumenti della punizione. Il principio di proporzionalità, la responsabilità intergenerazionale e l’equità distributiva impongono un approccio che valorizzi la sopravvivenza dell’azienda anche quando l’imprenditore abbia fallito.

In sintesi, la distinzione tra azienda e imprenditore non è più solo una esigenza teorica, ma una condizione di legittimità, razionalità e giustizia per l’intero sistema della crisi.

1. La distinzione concettuale tra azienda e imprenditore

1.1 L’azienda come oggetto giuridico e struttura funzionale

Nel diritto positivo italiano, l’azienda è definita dall’art. 2555 c.c. come «il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa». Si tratta dunque di una entità oggettiva, distinta dal soggetto che ne è titolare, e che assume rilievo giuridico autonomo per il suo carattere organizzato e funzionalmente orientato alla produzione o allo scambio di beni e servizi.

L’azienda è dotata di una sua identità economico-funzionale, che può sopravvivere anche al mutamento della persona dell’imprenditore, purché vi sia continuità di struttura, di clientela, di know-how, di risorse umane e organizzative. Essa non coincide con l’imprenditore, ma costituisce lo strumento dell’attività d’impresa. La confusione concettuale tra i due elementi conduce a errori interpretativi e prassi distruttive, soprattutto nei procedimenti di regolazione della crisi.

1.2 L’imprenditore come soggetto di diritto e centro decisionale

L’imprenditore, ai sensi dell’art. 2082 c.c., è colui che esercita professionalmente un’attività economica organizzata per la produzione o lo scambio di beni o di servizi. Egli è il soggetto giuridico, il titolare dell’attività, colui che assume decisioni strategiche, compie scelte allocative, gestisce i rischi e risponde (direttamente o indirettamente) delle obbligazioni contratte nell’esercizio dell’attività.

È l’imprenditore, non l’azienda, a dover rispondere di una gestione inefficiente, dissennata o illecita. L’azienda, come complesso organizzato di beni, non possiede volontà né capacità decisionale: essa è, giuridicamente ed economicamente, un mezzo, non un fine, né un soggetto.

La responsabilità per la crisi o per l’insolvenza, dunque, va correttamente ricondotta alla persona dell’imprenditore, non alla struttura aziendale. Punire l’imprenditore distruggendo l’azienda significa colpire uno strumento neutro che, in mani diverse, potrebbe continuare a produrre valore, occupazione, innovazione.

1.3 Differenze concettuali: profili civilistici

La letteratura giuridica ha da tempo evidenziato come la distinzione tra azienda e imprenditore sia non solo teorica, ma pregnante di conseguenze sistemiche, in particolare in materia di successione, cessione, affitto e continuità aziendale. Il trasferimento d’azienda ex art. 2560 c.c. presuppone l’autonomia dell’azienda rispetto al soggetto che la possiede: proprio perché l’azienda è un bene complesso, essa può essere alienata, locata, riorganizzata o rilanciata da un soggetto diverso, purché la struttura organizzativa rimanga idonea a esplicare la sua funzione economica.

Nel contesto delle crisi, ciò significa che l’azienda può essere salvata anche quando il suo imprenditore ha fallito, o è stato riconosciuto civilmente responsabile o penalmente colpevole. Le azioni giudiziarie e morali nei confronti del soggetto imprenditoriale devono seguire un percorso distinto da quello che mira a preservare, valorizzare o cedere l’azienda.

1.4 Conseguenze giuridiche della distinzione nei rapporti patrimoniali e obbligatori

L’errore di fondo che si riscontra in molte procedure concorsuali e giudizi di merito è quello di identificare l’azienda con il suo titolare, determinando una sorta di punizione indiretta: colpendo il soggetto, si distrugge l’oggetto, privando il mercato, i lavoratori, il territorio e i creditori stessi di una fonte potenziale di valore.

Tale confusione è particolarmente pericolosa nei contesti in cui l’imprenditore venga riconosciuto colpevole di mala gestio, bancarotta o altri illeciti. In tali casi, la reazione giudiziaria e sociale si concentra spesso sull’eliminazione integrale della struttura aziendale, come se essa fosse contaminata dal fallimento morale del suo titolare. Ma ciò equivale a privare la collettività di un patrimonio potenzialmente utile, che, affidato a mani diverse, potrebbe risorgere, rilanciarsi, e contribuire alla rigenerazione del tessuto produttivo.

È qui che si gioca il discrimine tra una giustizia riparativa e razionale e una giustizia distruttiva e simbolica. La prima separa il destino del soggetto dal valore dell’oggetto; la seconda confonde colpa e funzione, e rischia di generare un danno maggiore del male che intende punire.

2. L’azienda nella teoria aziendalistica: valore autonomo e funzione sociale

2.1 La prospettiva aziendalistica: azienda come organismo produttivo

In economia aziendale, l’azienda viene concepita come un sistema dinamico, organizzato e aperto, dotato di capacità di auto-rigenerazione e orientato alla produzione di valore nel tempo. Essa è più di una somma di beni: è un organismo complesso in cui interagiscono risorse materiali e immateriali, capitali, persone, relazioni con il mercato e il territorio.

Da questa prospettiva, l’azienda non è solo uno strumento dell’imprenditore, ma un soggetto economico dotato di autonomia funzionale, capace di sopravvivere anche a mutamenti radicali della governance o della proprietà. L’identificazione tra azienda e imprenditore è perciò antitetica ai fondamenti stessi della scienza aziendalistica.

2.2 Il concetto di “valore aziendale” al di là della titolarità

Il valore aziendale, nella moderna teoria della valutazione, è legato alla capacità prospettica di generare flussi di cassa e alla coerenza tra risorse organizzate e contesto competitivo. Questo valore può prescindere totalmente dalla persona dell’imprenditore, ed è spesso anzi penalizzato dalla permanenza di soggetti gestori non più in grado di garantire efficienza o affidabilità.

Dunque, nei procedimenti di crisi, la valutazione del valore aziendale non può e non deve essere condizionata dalla condotta o dalla reputazione dell’imprenditore. La separazione tra i due livelli – soggettivo e oggettivo – è indispensabile per valorizzare l’azienda come bene trasferibile, rigenerabile e portatore di utilità collettiva.

2.3 Continuità aziendale e discontinuità imprenditoriale: principi economico-gestionali

La nozione di continuità aziendale in discontinuità soggettiva costituisce una delle pietre angolari delle moderne procedure di risanamento. Affitto d’azienda, cessione in blocco, operazioni di management buy-in o turnaround guidati da soggetti terzi sono strumenti che permettono di preservare il valore economico-produttivo dell’azienda, liberandolo dal fallimento imprenditoriale del precedente titolare.

In questo contesto, la figura dell’imprenditore deve essere superata o sostituita, senza che ciò comprometta la vitalità della struttura aziendale. Anzi, spesso la sostituzione dell’imprenditore rappresenta la condizione necessaria per il rilancio.

2.4 L’azienda come patrimonio da preservare per il sistema economico

L’azienda genera occupazione, produce beni e servizi, sostiene l’indotto, contribuisce al gettito fiscale. Il suo valore, dunque, trascende l’interesse del singolo imprenditore e si estende alla collettività.

In un sistema economico sano, la sopravvivenza dell’azienda è un obiettivo primario, anche a prescindere dal destino del suo titolare. Distruggere un’azienda per punire un imprenditore significa infliggere una sanzione collettiva a dipendenti, fornitori, clienti e al tessuto produttivo nel suo complesso.

3. L’imprenditore come responsabile: profili soggettivi della crisi

3.1 Le cause della crisi: errori gestori, condotte patologiche, sfortuna

L’origine della crisi aziendale va ricercata spesso in una combinazione di fattori interni ed esterni. Sul versante interno, prevalgono l’incapacità gestionale, l’assenza di visione strategica, l’errata allocazione delle risorse, l’inadeguatezza dell’assetto organizzativo, la sottovalutazione dei segnali premonitori di difficoltà. Sul piano esterno, possono concorrere variabili ambientali, crisi settoriali, shock macroeconomici o eventi imprevedibili. Tuttavia, la distinzione tra responsabilità soggettiva e contingenza oggettiva è essenziale per attribuire in modo corretto le responsabilità della crisi.

In particolare, è fondamentale discernere tra la sfortuna imprenditoriale – fisiologica in ogni attività economica – e la mala gestio colposa o dolosa. L’equilibrio tra questi due estremi incide profondamente sulle scelte da adottare circa la sorte dell’azienda.

3.2 Responsabilità civilistica e penale dell’imprenditore

Quando la crisi deriva da gravi violazioni degli obblighi gestori, l’imprenditore può incorrere in responsabilità civile -per danno patrimoniale arrecato ai creditori, ai soci o ai terzi – e penale, nei casi previsti dalla normativa penal-concorsuale e penal- tributaria.

La sanzione giuridica deve colpire la condotta e la persona che l’ha tenuta. Ma troppo spesso, nella prassi giudiziaria e nella percezione pubblica, la reazione sanzionatoria si traduce nella dissoluzione dell’intera azienda, come se la funzione punitiva non potesse prescindere dalla distruzione del mezzo produttivo.

Questa assimilazione è tanto più pericolosa quanto più l’azienda, pur compromessa nella governance, resta economicamente vitale. La distinzione tra colpevolezza del soggetto e neutralità del mezzo deve guidare le scelte liquidatorie o conservative.

3.3 Mala gestio e mismanagement: quando punire il soggetto

La mala gestio può assumere forme molteplici: investimento sconsiderato, indebitamento eccessivo, gestione familistica, opacità contabile, elusione fiscale sistematica. Queste condotte giustificano l’intervento sanzionatorio, anche in chiave interdittiva, nei confronti dell’imprenditore.

Tuttavia, l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso non deve oscurare la possibilità di recuperare valore attraverso la discontinuità soggettiva. L’esclusione dell’imprenditore indegno non impone la distruzione dell’azienda: al contrario, può rendere possibile una sua rifunzionalizzazione in un nuovo assetto etico-produttivo.

3.4 Il rischio della confusione tra giudizio sull’imprenditore e destino dell’azienda

Il problema culturale e giuridico di fondo è l’incapacità di tenere distinti i piani del giudizio morale sul soggetto e del giudizio economico sull’oggetto. L’azienda diventa spesso una vittima collaterale della legittima esigenza di sanzionare la condotta imprenditoriale.

La funzione riparatoria della giustizia economica dovrebbe invece tendere a massimizzare il valore residuo, favorendo soluzioni di discontinuità che preservino le componenti vitali dell’azienda. Distruggere il tutto per punire uno significa rinunciare a ciò che può ancora generare benessere collettivo.

4. La crisi d’impresa come occasione di separazione tra azienda e imprenditore

4.1 Gli strumenti di gestione e soluzione della crisi: Codice della Crisi d’Impresa e tutela della continuità aziendale

Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’insolvenza (D.lgs. 14/2019) ha profondamente innovato il sistema delle procedure concorsuali, ponendo al centro la continuità aziendale come valore da tutelare, anche in caso di discontinuità soggettiva. La Composizione Negoziata e le procedure come il concordato in continuità aziendale – ma per certi versi anche la liquidazione giudiziale – sono strumenti che consentono di separare il destino dell’imprenditore da quello dell’azienda, favorendo la sopravvivenza del bene produttivo.

In particolare, l’art. 84 del CCII disciplina il concordato in continuità, valorizzando la prosecuzione dell’attività d’impresa quale mezzo di soddisfazione dei creditori e di salvaguardia dell’occupazione. Il principio guida è che l’azienda, anche se contaminata da errori gestori, possa essere ristrutturata e rilanciata.

4.2 La vendita in continuità e l’affitto d’azienda: strumenti per salvare l’organismo produttivo

Tra le soluzioni previste dal legislatore vi sono l’affitto d’azienda e la vendita in continuità, strumenti che permettono il trasferimento dell’azienda a un nuovo soggetto, in grado di garantire continuità operativa, salvaguardia occupazionale e generazione di flussi economici positivi.

La vendita in continuità, in particolare, è oggi uno degli strumenti centrali per evitare la dispersione del valore. Essa consente di estromettere l’imprenditore responsabile senza sacrificare l’azienda, che continua a vivere sotto nuova gestione, contribuendo alla soddisfazione dei creditori e alla stabilità del territorio.

4.3 Il ruolo dell’attestatore, del giudice e degli ausiliari nel distinguere azienda e imprenditore

Il successo della discontinuità rigenerativa dipende dalla capacità degli attori coinvolti – magistrati, ausiliari dei tribunali e delle procure, esperti e attestatori – di operare con lucidità e imparzialità. È essenziale che tali soggetti comprendano la differenza ontologica e funzionale tra azienda e imprenditore, e valutino l’operazione di continuità con parametri oggettivi e non pregiudiziali.

L’attestatore deve analizzare la sostenibilità del piano indipendentemente dal discredito personale dell’imprenditore uscente. Il giudice deve valutare la convenienza della soluzione in termini di soddisfazione dei creditori e di tutela del valore, non di giustizia retributiva verso l’imprenditore. Gli ausiliari devono supportare con competenza tecnica la separazione tra responsabilità individuale e potenziale economico residuo.

Non mancano esempi in cui il mancato riconoscimento della distinzione tra azienda e imprenditore ha condotto a esiti distruttivi. In alcuni casi, il giudizio negativo sull’imprenditore ha indotto a rigettare piani di continuità potenzialmente sostenibili, con conseguente dispersione di posti di lavoro, perdita di know-how e danno per i creditori.

Al contrario, vi sono precedenti virtuosi in cui, grazie a un approccio tecnico-giuridico rigoroso e non ideologico, è stato possibile separare la figura del debitore dalla struttura aziendale, preservandola e rilanciandola. Questi casi dimostrano che è possibile fare giustizia senza sacrificare il valore.

5. Valori sociologici ed etici della continuità aziendale

5.1 L’azienda come bene collettivo: lavoro, comunità, territorio

L’azienda non è solo un’entità economica, ma rappresenta un bene collettivo la cui esistenza incide sulla vita di lavoratori, famiglie, territori e interi comparti produttivi. La sua sopravvivenza, anche a prescindere dall’imprenditore che l’ha costituita o diretta, ha ricadute dirette sulla stabilità sociale e sulla coesione comunitaria. Ogni azienda che chiude per motivi punitivi e non strutturali genera una frattura sociale.

In una prospettiva sociologica, l’azienda si configura come istituzione connessa al sistema di valori, reti di relazioni e appartenenze territoriali. Distruggerla in nome della punizione individuale è un atto che ricade su soggetti estranei alla colpa, ma profondamente coinvolti nelle sue conseguenze.

5.2 Il dovere morale di non identificare l’errore individuale con il destino dell’organizzazione

Sotto il profilo etico, emerge con forza il dovere di separare la responsabilità personale da quella organizzativa. Il principio di giustizia distributiva impone che la pena colpisca il colpevole, e non l’intero ecosistema aziendale. Non si può permettere che la volontà di sanzionare una persona determini la perdita di centinaia di posti di lavoro o la desertificazione economica di un territorio.

Punire l’imprenditore non deve significare distruggere l’azienda. L’etica dell’equità esige discernimento: occorre colpire la condotta, non annientare il valore sociale prodotto dall’organizzazione.

5.3 L’etica del professionista e del giudice nella gestione della crisi

Professionisti e giudici sono chiamati ad assumere decisioni che non hanno solo rilevanza giuridica, ma anche portata etica e civile. L’attestatore che consente una soluzione distruttiva per pregiudizio soggettivo, o il giudice che rigetta un piano in continuità per punire un imprenditore, compiono atti che incidono sull’ordine sociale ed economico.

L’etica professionale impone un approccio impersonale e oggettivo, guidato dal principio del valore residuo e dell’utilità collettiva. Ogni scelta deve fondarsi su criteri tecnici, non su giudizi morali travestiti da valutazioni economiche.

5.4 Le ricadute sociali della liquidazione distruttiva e il valore della discontinuità rigenerativa

La liquidazione distruttiva, ossia quella che comporta la cessazione integrale dell’attività aziendale e la dispersione delle sue componenti, produce effetti sistemici devastanti. Non si limita a compromettere la soddisfazione dei creditori, che vedono eroso il valore di realizzo dei beni, ma colpisce direttamente la coesione sociale, la continuità occupazionale e la credibilità del sistema economico-produttivo. Ogni azienda chiusa definitivamente per reazione punitiva genera una molteplicità di danni collaterali: licenziamenti, perdita di competenze, abbandono di filiere locali, desertificazione imprenditoriale e depauperamento fiscale.

Nei territori economicamente fragili, la chiusura di un’azienda può segnare il declino irreversibile di un’intera comunità, alimentando fenomeni di emarginazione, spopolamento e disuguaglianza. In un simile contesto, la liquidazione distruttiva assume i contorni di un fallimento istituzionale, prima ancora che economico. Essa mina la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, trasmette un messaggio di impotenza del sistema e rafforza la percezione di una giustizia economica punitiva piuttosto che costruttiva.

All’opposto, la discontinuità rigenerativa rappresenta l’alternativa razionale, etica e produttiva. Essa consiste nel separare il destino dell’imprenditore da quello dell’azienda, individuando soluzioni che consentano il subentro di nuovi soggetti nella gestione, il rilancio operativo e la conservazione della forza lavoro. Questo approccio è oggi sostenuto tanto dalla dottrina aziendalistica quanto dalle più avanzate prassi giurisprudenziali e concorsuali.

La discontinuità rigenerativa permette di mantenere attivi impianti, relazioni commerciali, capitale umano e valore reputazionale, evitando il costo sociale e finanziario della ricostruzione da zero. È la forma più alta di responsabilità istituzionale, perché consente di trasformare una crisi in opportunità, un insuccesso in rilancio, una colpa individuale in una occasione collettiva di progresso. Essa non elude la responsabilità del soggetto colpevole, ma la circoscrive, proteggendo ciò che può ancora produrre utilità pubblica.

La vera giustizia nella crisi d’impresa non è quella che punisce distruggendo, ma quella che punisce preservando ciò che merita di essere salvato. È la giustizia che distingue tra il ramo secco e il tronco vivo, che taglia con precisione chirurgica senza abbattere l’intero organismo. È una giustizia di sistema, non d’impulso; una giustizia che costruisce futuro, non che certifica il disastro.

Oggi più che mai, la tenuta sociale, la stabilità occupazionale e la credibilità delle istituzioni dipendono dalla capacità di rigenerare valore aziendale anche a partire da un fallimento. L’alternativa – la liquidazione cieca, radicale, punitiva – non è più sostenibile né economicamente, né eticamente, né culturalmente.

Al contrario, la discontinuità rigenerativa permette di ricostruire fiducia, occupazione, produttività e benessere. Essa è l’espressione più alta della capacità del diritto e dell’economia di rigenerare valore partendo dalle macerie della crisi.

6. Conclusioni

Le superiori analisi evidenziano in modo netto e ineludibile l’urgenza di un cambio di paradigma nella gestione delle crisi aziendali.

Il sistema giuridico, economico e culturale italiano è ancora troppo spesso prigioniero di una concezione punitiva e monolitica della crisi, che tende a sovrapporre il destino dell’imprenditore a quello dell’azienda.

Tale sovrapposizione, oltre a non avere fondamento giuridico né teorico, produce effetti devastanti in termini di distruzione del valore, perdita occupazionale e regressione sociale.

È necessario affermare con forza che l’azienda non è l’imprenditore.

L’azienda è un organismo economico-funzionale che può sopravvivere, rigenerarsi e contribuire al benessere collettivo anche dopo l’estromissione o la sanzione del suo gestore.

Punire l’imprenditore è un atto dovuto nei casi di responsabilità civile o penale, e gli strumenti per farlo sono pienamente disponibili nell’arsenale normativo vigente.

Ma non si può più accettare che la punizione del soggetto comporti automaticamente la distruzione dell’oggetto.

Occorre proseguire nel cambiamento culturale profondo, già in atto, che coinvolga tutti gli attori della crisi: giudici, professionisti, creditori, autorità pubbliche e opinione collettiva.

La priorità deve essere quella di preservare il valore aziendale, ogniqualvolta esista la possibilità concreta di continuità, anche mediante discontinuità soggettiva.

Questo cambio di mentalità non è solo un’esigenza tecnica, ma un imperativo etico e sociale.

La funzione della giurisdizione economica non può ridursi alla vendetta né alla delegittimazione simbolica.

Essa deve servire alla tutela del valore residuo, all’equilibrio tra sanzione e ricostruzione, alla rigenerazione dell’ordine economico.

La giustizia razionale separa il colpevole dal patrimonio produttivo; la giustizia cieca li confonde e li annienta entrambi.

In un’epoca di fragilità sistemica e incertezza globale, salvare l’azienda – anche contro il fallimento del suo imprenditore – è una scelta di responsabilità, lungimiranza e giustizia autentica.

4 pensieri su “L’azienda oltre l’imprenditore

  1. ILARIONE FABIANO dice:

    complimenti Corrado per la tua analisi sul sistema giuridico, economico e culturale italiano.
    Credo che il “sistema” possa e debba essere migliorato, ma alla fine sono sempre le persone che fanno la differenza.
    Così come in un’azienda, è l’imprenditore a fare la differenza.
    E devo purtroppo constatare che da quando nel 1998 iniziai ad occuparmi di risk management assicurativo sulle PMI, ad oggi, la cultura generale degli imprenditori è migliorata davvero di poco.
    E non mi riferisco solo alla “sensibilità”, al buon senso ed alla responsabilità nel tutelare la loro azienda, la loro famiglia ed il loro patrimonio personale, ma alla gestione aziendale nel suo complesso.
    Nella stragrande maggioranza dei casi mi confronto ancora oggi con l’imprenditore “padre padrone” mentre invece in tante situazioni occorrerebbe una figura manageriale per fare il “salto di qualità”.
    Ma spesso, l’unico consulente che li attrae è quello che si occupa di ottimizzazione fiscale… lì, tra holding, società semplici e castelli in aria spendono decine di migliaia di euro…
    C’è ancora molta strada da fare e mi permetto di dire che anche i Commercialisti hanno molta strada da fare…
    Hanno una grandissima opportunità e la maggioranza di loro ancora non la vede, o non vuole vederla (posso dirlo perché collaboro con tanti Commercialisti).
    Eppure, ogni azienda ha il suo Commercialista.
    E se non è lui a diventare il primo baluardo, il manager dell’imprenditore, chi può farlo?

  2. Roberto Maccarrone dice:

    Bravo Corrado, ho trovato il tuo articolo molto interessante e le conclusioni di ottimo tono, pertanto le condivido, approvo e sottoscrivo al 100%. Il cambiamento nasce da riflessioni come le tue. Grazie e continuiamo a proporre innovazione e rivoluzione di norme vetuste e superate,

  3. Fabrizio Condemi dice:

    Davvero interessante. Hai colto il centro nevralgico dell’evoluzione normativa, dalla Legge Fallimentare, atta solo a cassare l’azienda dal sistema economico quando essa viene intesa come “marcia”, al codice della Crisi che inserisce al centro del sistema l’azienda dove, la sua protezione, autonoma rispetto alla figura dell’imprenditore, di per sé funge da protezione del mercato e del sistema economico Generale. Tema immenso e molto accattivante, dove tra i punti deboli restano (tra gli altri) le diverse letture che vengono date dai diversi Tribunali dello Stivale e l’atavico (e sempre peggio) approccio pachidermico e del tutto avulso dalla realtà odierna, dell’ente pubblico delle Entrate e Riscossione del Paese.

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