L’etica professionale non è una formalità
Il caso paradigmatico del silenzio colpevole
Nel contesto delle professioni intellettuali, e in particolare di quelle soggette a regime ordinistico, l’etica non può essere relegata a mera declamazione retorica o a orpello formale. Essa costituisce l’ossatura invisibile – ma essenziale – della fiducia che lega il professionista al suo cliente, ancor più quando quest’ultimo è un ente pubblico o una società a partecipazione pubblica.
Il commercialista, nel suo ruolo, non è un semplice prestatore d’opera: è un custode di interessi collettivi, un interprete della legalità sostanziale, un garante implicito del corretto funzionamento del sistema economico e amministrativo.
Non è un caso che già il “De computis et scripturis” di Fra Luca Pacioli, pubblicato nel 1494, non fosse solo un manuale tecnico sulla partita doppia, ma un’opera imbevuta di princìpi morali. Il frate francescano esortava il mercante – e con lui ogni operatore economico – alla verità dei numeri, all’equilibrio, alla responsabilità verso la comunità. Egli scriveva che il buon mercante, per essere tale, “deve avere una mente onesta e una reputazione incorruttibile” (mente honesta e reputacione incorrupta). Non si trattava solo di contabilità, ma di coscienza.
Nel tempo, quell’etica si è trasformata nella deontologia professionale del commercialista, ma il fondamento è rimasto immutato: veritas, integritas, fides. La verità come base della comunicazione con il cliente e con le istituzioni; l’integrità come coerenza tra il sapere e l’agire; la fedeltà come impegno verso il bene comune.
Tanto più pregnante si fa il dovere etico e deontologico quando il professionista viene chiamato a svolgere un incarico volto a scrutinare comportamenti potenzialmente illeciti di altri colleghi – come accade nelle verifiche su possibili fatti di mala gestio o di omessa vigilanza da parte di organi societari. In tali casi, non è solo la competenza tecnica a essere rilevante: è l’autorevolezza morale, l’integrità personale, la trasparenza del proprio percorso professionale che fondano la legittimità dell’incarico.
“Fiat voluntas legis, non voluntas hominis” – sia fatta la volontà della legge, non quella dell’uomo: ad esempio, omettere da parte del professionista chiamato ad assumere un tale incarico di rappresentare all’ente conferente l’esistenza a proprio carico di una condanna civile per fatti analoghi a quelli che è chiamato a valutare – inflitta in relazione a responsabilità gestorie pregresse – equivale a tradire non solo il codice deontologico, ma l’essenza stessa del mandato fiduciario. Significa degradare l’etica a una variabile negoziabile, subordinata all’interesse personale del professionista.
È un silenzio colpevole, che suona come una dichiarazione menzognera per omissione. È l’antitesi di ciò che dovrebbe essere un professionista chiamato a fornire un parere in materia di responsabilità gestoria e di controllo legale di una società: non un giudice imparziale, ma un soggetto compromesso dalla propria storia, che cela anziché chiarire, e che espone l’ente ignaro al rischio di una delegittimazione profonda, giuridica e reputazionale.
Il dovere di disclosure in caso di condanne civili e non solo di quelle penali
Nel conferimento di incarichi professionali da parte di enti pubblici o di società a partecipazione pubblica, la trasparenza non è una mera formalità: è un presupposto di legittimità e di affidabilità. Laddove un professionista sia stato destinatario di una condanna risarcitoria per mala gestio nei confronti di un ente dello Stato, l’obbligo morale, etico e deontologico di informare l’ente committente è assoluto. Non vi è spazio per interpretazioni opportunistiche: l’omissione di tale informazione nega all’ente la possibilità di un’adeguata valutazione fiduciaria.
Se il professionista è destinatario di una condanna risarcitoria in sede civile, derivante da condotta gestoria gravemente colposa o dolosa, ha il dovere di comunicarlo previamente all’ente che intenda conferirgli un incarico volto ad accertare responsabilità altrui in ipotesi analoghe a quelle che lo hanno visto destinatario di una condanna in sede civile.
L’ente, infatti, deve poter valutare tale informazione quale elemento essenziale per la scelta fiduciaria. La condotta omissiva, pertanto, non può che essere qualificata come violazione della buona fede contrattuale, del dovere di lealtà e, soprattutto, del principio di trasparenza.
“Qui tacet, consentire videtur” – chi tace sembra acconsentire – dicevano i giuristi romani. Ma quando il silenzio cela fatti gravi e rilevanti, esso equivale a una forma di falsità sostanziale: una mistificazione dell’idoneità morale e della capacità di giudizio richieste per il compito da svolgere.
Non può sostenersi, in alcun modo, che l’obbligo di trasparenza etica sia confinato alle sole condanne penali. Un simile assunto sarebbe non solo riduttivo, ma profondamente fuorviante. Le condanne civili, specialmente quando derivano da accertamenti giudiziali su fatti di mala gestio, violazioni degli obblighi fiduciari o danni arrecati ad enti pubblici, sono pienamente idonee a incidere sulla credibilità personale e sull’attitudine professionale al ruolo di consulente fiduciario.
Il disvalore etico e professionale di una condanna civile risarcitoria magari milionaria, pronunciata in sede giurisdizionale nei confronti di un professionista per gravi violazioni degli obblighi gestori, non è inferiore – sotto il profilo della fiducia – a quello di una condanna penale. La differenza di natura giuridica tra le due non elide la comune radice: la constatazione giudiziale di una condotta lesiva, di una responsabilità, di una violazione. E ciò è tanto più vero nel campo della consulenza su responsabilità gestorie, dove la dimensione morale del professionista è elemento coessenziale al ruolo affidato.
Ridurre la disclosure alle sole condanne penali significa accettare un formalismo etico che svuota di senso la sostanza del rapporto fiduciario. L’ente pubblico, piuttosto che la società a partecipazione pubblica, che affida un incarico così delicato non ricerca soltanto l’assenza di reati, ma una figura limpida, autorevole, capace di giudicare perché immune – nel proprio passato recente – da comportamenti censurabili della stessa natura.
L’omessa comunicazione all’ente di una condanna civile di questo tipo, pertanto, non è giuridicamente irrilevante, ma costituisce un atto omissivo gravemente contrario ai principi di lealtà, trasparenza e decoro professionale, in aperta violazione delle regole deontologiche, e tale da compromettere in radice la fiducia che l’ente pubblico, o la società a partecipazione pubblica, deve necessariamente riporre nel conferire un incarico di siffatta natura.
Va chiarito che non si sta trattando di una pendenza giudiziaria in corso, né di un contenzioso civile aperto che potrebbe – o non potrebbe – sfociare in una responsabilità. Ci si trova di fronte a una condanna civile già pronunciata da un organo giurisdizionale, con accertamento giudiziale della responsabilità per fatti gravi di mala gestio e conseguente obbligo risarcitorio milionario nei confronti di un ente pubblico.
Questa distinzione non è di poco conto: una condanna è un fatto giuridicamente accertato, non un sospetto né un’ipotesi. È la certificazione giudiziale di una condotta lesiva, accertata nel merito, rispetto alla quale non è più possibile invocare la presunzione di non responsabilità. E proprio per questo, il silenzio su una condanna già intervenuta costituisce una violazione gravissima dell’obbligo di trasparenza, non più giustificabile con richiami a cautela, garanzia o presunzione.
A maggior ragione, anche la mera pendenza di un procedimento civile per fatti rilevanti dovrebbe essere comunicata all’ente, piuttosto che alla società a partecipazione pubblica, proprio per evitare che l’ente stesso si trovi, in un secondo momento, a dover giustificare una scelta fondata su informazioni parziali o viziate. Ma nel caso di una condanna già pronunciata, non c’è margine: il dovere informativo è assoluto, e il suo mancato rispetto è fonte di responsabilità etica, deontologica e reputazionale.
Incompatibilità morale e logica tra incarico e precedente condotta antidoverosa del professionista accertata in sede civile
Vi è un’incompatibilità intrinseca tra l’incarico volto a verificare responsabilità per mala gestio e la pregressa condanna del soggetto incaricato per fatti di analoga natura. È un corto circuito logico e morale. Il professionista giudicato civilmente responsabile per avere arrecato un danno ingente a un altro ente pubblico non può essere considerato credibile nel valutare condotte potenzialmente analoghe di altri amministratori.
Non è in discussione solo l’apparenza di imparzialità – che pure è un requisito essenziale – ma la sostanza stessa della competenza morale. Ogni valutazione compiuta da un soggetto che non abbia comunicato un precedente tanto grave risulterebbe, per ciò solo, priva di legittimazione etica. L’effetto è pericoloso: si legittima un modello di irresponsabilità dove l’unico criterio è la convenienza individuale e si svilisce così il valore dell’incarico conferito.
Responsabilità etica verso l’ente pubblico e la società a partecipazione pubblica
Il professionista che omette di dichiarare un fatto tanto rilevante tradisce la fiducia dell’ente pubblico. Ma oltre al tradimento morale, vi è un profilo di responsabilità concreta: la lesione della capacità decisionale dell’ente e l’esposizione dello stesso a rischi reputazionali gravissimi. Qualora tale omissione venisse a conoscenza della stampa o degli organi di controllo, l’intero procedimento di conferimento dell’incarico potrebbe essere delegittimato.
L’ente, ignaro della condanna, sarebbe posto nella condizione di difendersi da accuse di superficialità o connivenza. Il danno non sarebbe solo d’immagine: potrebbe tradursi in responsabilità contabile o amministrativa, qualora l’incarico comportasse oneri economici ingiustificati o esiti inattendibili. L’effetto distorsivo dell’omissione si ripercuote, dunque, sull’intera catena della responsabilità pubblica.
Non garantismo né colpevolismo: solo esigenza di correttezza
Affermare che un professionista debba informare l’ente conferente un possibile incarico circa l’esistenza di una condanna risarcitoria per fatti di grave mala gestio non significa indulgere in atteggiamenti colpevolisti, né violare principi garantisti. Significa semplicemente pretendere correttezza, trasparenza e rispetto del rapporto fiduciario. L’etica pubblica non si alimenta di sospetti, ma neppure può tollerare omissioni.
Non si chiede di emettere un giudizio morale preventivo sul professionista, ma di consentire all’ente, con piena consapevolezza, di valutare l’idoneità della persona in relazione alla delicatezza dell’incarico da affidare. Ed è proprio questa la questione dirimente: non è il professionista a potersi arrogare il diritto di decidere unilateralmente ciò che è rilevante o irrilevante, ciò che può essere taciuto o rivelato. È l’ente – titolare dell’interesse pubblico – che ha il diritto di conoscere i fatti e di valutarli nella loro interezza, per decidere, eventualmente anche in senso positivo, circa il conferimento dell’incarico.
La trasparenza non è una concessione, ma un obbligo. Un dovere di lealtà, che precede ogni atto formale e che costituisce il presupposto stesso della legittimità sostanziale dell’incarico. Nascondere informazioni rilevanti per l’idoneità etica a svolgere un compito fiduciario così delicato non è prudenza, ma slealtà. Non è cautela, ma opacità.
Essere corretti non significa giudicare, ma rifiutare l’inganno per omissione. E in questo risiede la vera essenza della professionalità responsabile.
Il danno sistemico: credibilità compromessa e concorrenza sleale tra professionisti
Il comportamento omissivo di chi cela una condanna civile per grave mala gestio nell’ambito di una procedura di affidamento pubblico non produce effetti isolati, ma genera un danno ben più profondo: compromette la credibilità dell’intera categoria professionale.
Quando un singolo professionista si sottrae agli obblighi di trasparenza in situazioni di così rilevante impatto etico e fiduciario, non è solo la sua immagine a risultarne intaccata: è l’intera professione che ne paga il prezzo in termini di reputazione collettiva.
In un’epoca in cui l’opinione pubblica, i media e gli organi istituzionali sono sempre più sensibili alla questione dell’integrità dei soggetti incaricati di funzioni consulenziali presso enti pubblici, ogni condotta elusiva si riflette sulla percezione esterna del ruolo del commercialista, minandone la presunta terzietà, l’affidabilità e l’autorevolezza. La fiducia – che costituisce il capitale immateriale più prezioso per ogni ordinamento professionale – si dissolve ogni volta che un incarico viene ottenuto mediante opacità, ambiguità o silenzi strategici.
Ma non è tutto: un simile comportamento nega o sottrae opportunità a quei colleghi che, nel rispetto della trasparenza e della deontologia, si presentano all’ente con onestà e rigore, possedendo pari o superiore preparazione tecnica. Si crea così una forma subdola di concorrenza sleale, fondata non sul merito ma sulla dissimulazione, in totale contraddizione con i valori fondativi dell’ordinamento professionale.
L’omissione non è solo un torto all’ente che conferisce l’incarico, ma anche – e forse soprattutto – un torto alla professione e ai professionisti che ne onorano il nome. Ed è proprio per preservare la dignità e il rispetto di tutta la categoria che tali condotte devono essere non solo stigmatizzate, ma escluse con nettezza da ogni ambito in cui la fiducia non è un accessorio, ma la condizione irrinunciabile dell’agire.
La trasparenza non è accessoria: è la regola fondativa della vita professionale
Nel codice genetico di ogni professione ordinistica – e in particolare di quella del commercialista – la trasparenza è principio strutturale, non facoltativo. Essa rappresenta non solo un dovere formale imposto dalle regole deontologiche, ma una regola ispiratrice dell’intera vita professionale, una condizione essenziale per l’esercizio legittimo di qualsiasi funzione fiduciaria.
Essere trasparenti non significa soltanto non mentire: significa non trarre in inganno, non generare fraintendimenti, non nascondere informazioni rilevanti a chi è chiamato a decidere se affidare un incarico delicato. La verità incompleta è spesso una forma sottile di menzogna, e ancor più lo è in ambito professionale, dove il non detto può incidere più del detto.
Un’informazione reticente o decettiva, che ometta consapevolmente un elemento idoneo a orientare la scelta del cliente – e a fortiori dell’ente pubblico -, contraddice in radice la funzione del professionista, che non è quella di apparire, ma di essere affidabile, limpido, integro.
Chi abdica alla trasparenza, abdica alla propria autorevolezza.
La trasparenza è il filtro etico che separa la professionalità dall’opportunismo. Essa precede la tecnica, qualifica la competenza, legittima il ruolo. Senza trasparenza, la fiducia diventa finzione, e il rapporto professionale si trasforma in un contratto viziato da ambiguità e asimmetria informativa.
L’etica non è negoziabile: riflessione conclusiva
In una società democratica, il rapporto tra professionisti e istituzioni si fonda su un patto di fiducia e trasparenza. L’etica non è un surplus decorativo né una clausola di stile nei codici deontologici. È una precondizione dell’incarico stesso. L’omissione di fatti tanto rilevanti compromette irreparabilmente il rapporto fiduciario e rende inammissibile qualsiasi giustificazione successiva.
Il commercialista che accetta un incarico volto a valutare la correttezza altrui, senza prima chiarire la propria posizione, compie un atto di slealtà istituzionale. In tali casi, l’etica non è un bene fungibile: è, al contrario, ciò che distingue la consulenza come funzione pubblica dalla mera prestazione tecnica. E chi ne viola le regole deve essere escluso dai ruoli in cui la moralità non è solo richiesta, ma presunta.
Complimenti, dott. Ferriani, un articolo semplicemente P E R F E T T O .