Rigetto liquidazione giudiziale e responsabilità organi sociali
Nella valutazione della responsabilità degli organi sociali occorre considerare le ragioni di rigetto di una istanza di liquidazione giudiziale
Un argomento d’interesse è rappresentato dall’efficacia, nel giudizio di responsabilità contro gli organi sociali, degli accertamenti sullo stato di insolvenza svolti nel procedimento per la liquidazione giudiziale conclusosi con il rigetto dell’istanza a cui – in epoca successiva – ha fatto seguito una nuova istanza di liquidazione giudiziale conclusasi con la declaratoria di insolvenza.
La giurisprudenza di legittimità, sotto la vigenza della vecchia disciplina fallimentare, si era espressa in ordine all’efficacia esterna del provvedimento di rigetto dell’istanza di fallimento.
Invero, con la sentenza n. 12925 del 23 maggio 2017, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, pronunciandosi sul tema dell’attitudine al giudicato del provvedimento di rigetto dell’istanza di fallimento a seguito del decreto legislativo n. 5 del 2006, contenente la riforma organica della disciplina del fallimento, dopo aver ripercorso i principi formatisi nel contesto normativo previgente, in base ai quali l’autorità di giudicato del decreto di rigetto era in radice esclusa, ha modificato il proprio orientamento.
Difatti, l’indirizzo giurisprudenziale antecedente e sostanzialmente uniforme partiva dal presupposto della connotazione prevalentemente pubblicistica della fase prefallimentare[1].
Successivamente all’entrata in vigore del citato correttivo, però, la Suprema Corte ha affermato che la soppressione[2] dell’iniziativa officiosa nella dichiarazione del fallimento e la sottoposizione dell’istruttoria prefallimentare ad un modello di tipo contenzioso, hanno posto le premesse affinché venisse ripensata l’inidoneità del provvedimento di rigetto dell’istanza di fallimento ad acquistare efficacia di giudicato.
Invero, non è in alcun modo preclusa la riproponibilità della domanda di fallimento, già respinta con provvedimento formalmente divenuto inoppugnabile; questa, infatti, richiede una nuova valutazione in concreto, non potendo però prescindere dalle ragioni del rigetto o della revoca del fallimento.
Vero è, infatti, che il giudicato opera per sua natura rebus sic stantibus, coprendo il dedotto e il deducibile, non potendo invece porre sotto la propria alea quanto ancora non venuto ad esistenza.
È quindi fuor di dubbio che il rigetto della domanda di fallimento per motivi di merito dia luogo o meno al formarsi del giudicato a seconda delle ragioni del rigetto del ricorso o della revoca del fallimento, mentre nel caso in cui questi siano stati determinati da rilevi meramente processuali (come nel caso di rinuncia del creditore ovvero del P.M.), non si determina alcuna preclusione alla presentazione di una nuova istanza[3].
La pronuncia negativa sulla dichiarazione di fallimento, difatti, non presenta i caratteri della decisorietà e della definitività[4], ed infatti è sempre possibile, per il creditore, riproporre l’istanza di fallimento nei confronti del debitore insolvente, anche per lo stesso credito posto a fondamento di quella precedente e rigettata poiché, per la ripresentazione del di fallimento non sono necessari elementi nuovi[5].
Il provvedimento che eventualmente rigetti l’istanza di fallimento non può considerarsi come negativo di un diritto, trattandosi di pronuncia inidonea ad incidere su diritti soggettivi, ma non può dirsi la stessa cosa in merito ai fatti ivi accertati.
Invero, nell’ipotesi di riproposizione di una domanda di fallimento già respinta con provvedimento divenuto formalmente inoppugnabile, non può non trovare spazio il principio del ne bis in idem, purché con riguardo alle singole circostanze del caso concreto, le quali tengano opportunamente conto delle ragioni della sentenza di rigetto o di revoca del fallimento, cioè del contenuto specifico di quel provvedimento.
Pertanto, proprio in applicazione di tale principio, il decreto di rigetto dell’istanza di liquidazione giudiziale acquista certamente efficacia di giudicato qualora abbia esaminato il merito, ovverosia i presupposti in ordine alla sussistenza dello stato di insolvenza e, quindi, incidentalmente, la correttezza dell’operato di sindaci e amministratori.
Una simile pronuncia, divenuta inoppugnabile per mancata impugnazione, esplica efficacia di giudicato sull’attività gestoria (e sullo stato di salute dell’impresa) sino a quella data.
Ed allora, qualora in epoca successiva venga dichiarata la liquidazione giudiziale della medesima impresa cui era stata negata la sussistenza dello stato di decozione con decreto definitivo, quali effetti si producono nell’ambito dell’eventuale azione di responsabilità promossa dalla curatela nei confronti di amministratori e componenti del Collegio sindacale?
Si ritiene che non possa essere addebitata ad amministratori e sindaci la responsabilità per fatti commessi nell’arco di tempo oggetto di esame nel procedimento prefallimentare conclusosi con un provvedimento di rigetto che abbia statuito l’assenza dello stato di insolvenza; e ciò in quanto tale accertamento definitivo circa l’assenza di uno stato di insolvenza aveva di fatto escluso la responsabilità di amministratori e sindaci per quel lasso temporale.
Ne consegue che nell’eventuale azione di responsabilità promossa nei confronti di amministratori e sindaci dalla curatela in seguito alla successiva declaratoria di liquidazione giudiziale, gli accertamenti svolti nel precedente procedimento prefallimentare conclusosi con il rigetto dell’istanza di liquidazione giudiziale esplicano efficacia di giudicato con riferimento all’assenza dello stato di insolvenza e anche sul comportamento degli organi sociali sino alla data presa in considerazione dal decreto di rigetto.
[1] Cass., Sez. Un., 7 dicembre 2006, n. 26081; Cass. 20 febbraio 2006, n. 2975; Cass. 7 ottobre 2005, n. 19643; Cass. 27 novembre 2001, n. 15018; Cass. 6 ottobre 1999, n. 11107; conforme anche la dottrina, tranne qualche isolato precedente disomogeneo, reso in fattispecie particolari Cass. 18 gennaio 2000, n. 474; Cass. 26 giugno 2000, n. 8660.
[2] Operata dalle riforme della disciplina fallimentare del 2006 e successive modifiche.
[3] Cass. 18 giugno 2014, n. 13909.
[4] Cass., Sezioni Unite, sentenza n. 26181 del 7 dicembre 2006.
[5] Cass., Sez. I, con sentenza n. 13909 del 18 Giugno 2014.