Collegio sindacale e responsabilità per bancarotta dolosa

Collegio sindacale e responsabilità per bancarotta dolosa

Responsabilità dei sindaci per reati di bancarotta fraudolenta richiede il nesso di causa tra omissioni sindaci e condotte illecite governance

La responsabilità penale del Collegio sindacale nell’ambito dei reati fallimentari dolosi è tema certamente delicato. Spesso, infatti, la posizione dei sindaci viene automaticamente equiparata a quella degli amministratori operativi.

Nulla di più sbagliato.

La responsabilità per fatti di bancarotta fraudolenta dei componenti il Collegio sindacale deve sorgere unicamente se e quando emergano elementi sintomatici espressivi dell’omissione dolosa dell’obbligo di vigilanza e controllo, tra i quali assumono massimo rilievo la competenza professionale e l’omissione delle verifiche minime – e come tali doverose – in presenza di uno stato di crisi o peggio di decozione.

A tale conclusione, è pervenuta con esemplare chiarezza, la Cassazione Penale, Sez. V, con la sentenza 26 maggio 2021 (ud. 17 marzo 2021), n. 20867.

I Giudici supremi hanno affermato che “la responsabilità dei sindaci, a titolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, sussiste solo qualora emergano puntuali elementi sintomatici, dotati del necessario spessore indiziario, in forza dei quali l’omissione del potere di controllo – e, pertanto l’inadempimento dei poteri doveri di vigilanza il cui esercizio sarebbe valso ad impedire le condotte distrattive degli amministratori – esorbiti dalla dimensione meramente colposa per assurgere al rango di elemento dimostrativo di dolosa partecipazione, sia pure nella forma del dolo eventuale, per consapevole volontà di agire anche a costo di far derivare dall’omesso controllo la commissione di illiceità da parte degli amministratori”.

Per sostenere la responsabilità del Collegio sindacale è dunque necessario individuare “alcuni ‘indicatori’ della volontà dolosa di concorrere nel reato, per evitare il rischio di una responsabilità ascritta solo a titolo di negligenza o, peggio, derivante dalla mera posizione di controllo. Tra tali indicatori, si conferisce risalto al fatto che i sindaci siano espressione del gruppo di controllo della società; alla circostanza che di essi sia provata la rilevante competenza professionale, ovvero che i sindaci abbiano omesso, malgrado la situazione critica della società, ogni minimo controllo”.

Diversamente, essa “non può desumersi da una mera loro posizione di garanzia e dal mancato esercizio dei relativi doveri di controllo, ma postula l’esistenza di elementi, dotati di adeguato e necessario spessore indiziario, sintomatici della partecipazione, sia pur libera e portata ‘in qualsiasi modo’, dei sindaci stessi all’attività degli amministratori ovvero dell’effettiva incidenza causale dell’omesso esercizio dei doveri di controllo rispetto alla commissione del reato di bancarotta fraudolenta da parte di costoro”.

La clausola di equivalenza tra commettere ed omettere – di cui all’art. 40 cpv c.p. – è subordinata all’esistenza di un obbligo giuridico di proibire l’evento; dovere che, ovviamente, è subordinato alla previa effettiva individuazione della sussistenza di poteri-doveri impeditivi in capo al titolare.

Con parole più semplici, il necessario presupposto oggettivo, del quale è necessaria la verifica sulla sua sussistenza ancora prima della valutazione dell’incidenza causale dell’omissione e della sua dolosa connotazione, è l’obbligo giuridico di attivazione espressamente previsto dalla legge al fine specifico di evitare l’evento che si è verificato.

L’origine della posizione di garanzia del Collegio sindacale, di matrice civilistica, è rinvenibile nel dovere generale – connaturatamente indeterminato – di vigilare sulla legalità dell’agire sociale, previsto all’art. 2403 c.c., nonché nel principio solidaristico della responsabilità civile di cui all’art. 2407 c.c.

Se ciò è vero, la responsabilità penale per fatti di bancarotta fraudolenta è conseguenza della posizione di garanzia attribuita al singolo componente dell’organo di controllo societario, ancor prima che all’organo collegiale, la quale deve essere individuata in teoria e poi concretamente verificata nel momento causale. L’esistenza del nesso di causa, che è già autonomamente idoneo a perimetrare, rectius restringere, la struttura operativa della responsabilità ai soli doveri che postulano poteri d’intervento (del controllore) antecedenti al perfezionamento del reato (dei gestori), di cui andrà verificata, in concreto, l’efficacia impeditiva. D’altronde, è innegabile che l’attività del sindaco si traduce comunque in un controllo “dall’esterno” che, in quanto tale, è naturalmente meno penetrante rispetto a quello che, invece, può essere svolto da altro amministratore operativo in merito all’operato di un proprio pari grado.

La responsabilità penale del Collegio sindacale è configurabile fino a quando non siano stati esercitati tutti i poteri inerenti al ruolo di garante che abbiano capacità di evitare l’evento. Questo, ovviamente, a condizione che tale omissione possa essere causalmente collegata allo specifico fatto costituente reato, in modo da scongiurare sovrapposizioni con la responsabilità civilistica.

Tali concetti, che dovrebbero trovare unanime consenso e generale applicazione, restano però purtroppo teorici. Nel diritto vivente, non si rintraccia un vaglio rigoroso “per ritenere che l’omesso controllo abbia avuto effettiva incidenza causale nella commissione del reato da parte degli amministratori” (così Cass. pen., 21 aprile 2010, n. 15360). Ne consegue che il distinguo tra “vigilanza” negligente e “concorso” nel reato consumato dai sindaci si sposta sulla sdrucciolosa pendice dell’elemento soggettivo del reato, tentando – con evidenti – a valorizzare la funzione del dolo che non potendosi esaurire nella colpevolezza, diviene componente dell’azione.

Il tema, tutt’altro che semplice, del concorso omissivo nell’altrui reato commissivo diventa infatti particolarmente ostico in tema di reati previsti dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza che, nel Titolo IX, individua – con un mero copia incolla dei reati previsti dalla “vecchia” legge fallimentare, gli illeciti penali anche a carico del collegio sindacale artt. 322 e 329 e ss.

Più nello specifico, la giurisprudenza di legittimità formatasi in vigenza della legge fallimentare, ora superata e stravolta dal CCII in ogni sua parte fatta eccezione delle disposizioni penali che sono rimaste invariate, si è interrogata sull’esistenza di una posizione di garanzia del Collegio Sindacale rispetto al reato di bancarotta fraudolenta commessa dagli amministratori operativi.

Per comprendere tale annosa questione, è necessario analizzare il reato di bancarotta fraudolenta volgendo lo sguardo alle disposizioni civilistiche in tema di posizione di controllo dei sindaci nelle società di capitali, specificatamente indicate negli artt. 2403, 2405, 2407, 2409 del Codice civile.

Il reato di bancarotta fraudolenta, tanto nelle disposizioni contenute all’art. 322 del CCII quanto nel previgente art. 216, R.D. nr. 267/1942, sanziona l’imprenditore individuale e collettivo, dichiarato insolvente, che abbia in via alternativa o cumulativa distratto, occultato, distrutto o dissipato parte dei beni al fine di recare pregiudizio ai creditori. Sempre la stessa norma punisce l’imprenditore fallito che abbia sottratto, distrutto ovvero falsificato le scritture contabili al fine di arrecare un pregiudizio al ceto creditorio.

Nonostante la natura di reato proprio, le ipotesi di bancarotta fraudolenta possono essere commesse per effetto delle disposizioni contenute nell’art. 329 CCII (e nel vecchio art. 223 l. fall), anche dai direttori generali, amministratori e sindaci laddove abbiano concorso a cagionare il dissesto della società ponendo in essere – ad esempio – taluno dei fatti indicati dagli artt. 2621 ss. c.c., piuttosto che quando abbiano cagionato con dolo, o per effetto di operazioni dolose, il fallimento della società.

La giurisprudenza di legittimità si è espressa più volte sul tema del concorso omissivo dei sindaci nel reato commissivo posto in essere dagli amministratori privilegiando, spesso, la violazione dell’obbligo di vigilanza quale esclusivo fondamento della responsabilità: una responsabilità, in altri termini, costruita “sui doveri ma sovente trascurando i poteri”. Posto che ai poteri-doveri di controllo previsti dalla normativa civilistica si aggiunge – a mente del citato art. 40 cpv c.p. – l’obbligo di impedire l’evento, occorre domandarsi cosa sia tenuto a fare il Collegio sindacale affinché detto obbligo possa dirsi rispettato. La risposta a tale domanda, non può prescindere dal considerare che i poteri autenticamente impeditivi del Collegio sindacale sono pochi e limitati, cosicché spesso si tende a confondere i poteri di intervento con i poteri impeditivi dell’altrui operato.

Secondo il consolidato indirizzo ermeneutico, avallato anche di recente dalla Corte di Cassazione (si veda Cass. Pen., sez. V, con la sentenza 1.8.2023 n. 33782), si è affermato il principio di diritto secondo il quale i componenti del Collegio sindacale rispondono di concorso omissivo nel reato commissivo posto in essere dagli amministratori nei casi in cui i) la loro condotta sia causa dell’evento; ii) i poteri non esercitati avrebbero con alta probabilità evitato l’evento; iii) l’evento fosse in concreto prevedibile ed evitabile; iv) sussista in capo ai sindaci l’elemento soggettivo del dolo anche nella sua forma eventuale. La Suprema Corte arriva a tali conclusioni sulla scorta di una articolata analisi e di una molteplicità di argomenti, conformi ai principi del diritto penale moderno che, correttamente, respinge ogni forma di responsabilità penale da mera posizione.

Ecco perché, quindi, per riconoscere la responsabilità penale del sindaco è necessario, oltre alla posizione di garanzia, che la sua condotta omissiva sia causa dell’evento secondo lo schema del c.d. comportamento alternativo lecito, ovvero, verificare se la condotta doverosa, in concreto omessa, avrebbe evitato la verificazione dell’evento alla luce di un giudizio controfattuale basato su validi principi scientifici e di esperienza. Al cospetto di una risposta affermativa, allora, sul piano oggettivo si perverrà alla prova della causalità dell’omissione rispetto alla verificazione dell’evento che, ad esempio, nel reato di bancarotta impropria di cui all’art. 329 CCII, è costituito dal dissesto societario o dall’esecuzione di operazioni dolose preordinate alla liquidazione giudiziale/fallimento.

La Suprema Corte espone altresì delle specifiche in tema di elemento soggettivo del reato, ritenendo che in capo al sindaco, e quindi al collegio sindacale, debba sussistere il dolo, come detto anche nella sua forma eventuale, rispetto al fatto illecito consumato dagli amministratori. Precisamente, il dolo si manifesta nella consapevolezza che la propria condotta omissiva risulti concretamente idonea ad agevolare il fatto illecito dell’organo gestorio.

Tali elementi, sebbene escludano ogni forma di responsabilità penale da mera posizione, non possono essere esenti da dubbi e finanche critiche.

Con riferimento all’esistenza della posizione di garanzia e dei relativi poteri impeditivi del collegio sindacale, non può, ergo non deve, sfuggire l’intrinseca indeterminatezza della posizione di garanzia di cui all’art. 2403 c.c., che non specifica quali siano le fattispecie di reato da impedire. Così come non può tacersi che nessuno dei poteri ispettivi, nonché di controllo e denunzia, possono realmente assurgere al ruolo “poteri impeditivi”, essendo i predetti semplicemente prodromici al potere – effettivamente impeditivo – di revoca e sostituzione dell’amministratore appartenente all’assemblea dei soci o all’autorità giudiziaria ex art. 2409 c.c. Ed è proprio quest’ultima norma, tanto invocata – ex post –  nella valutazione della condotta dei sindaci, a generare confusione e incertezza. Infatti, se si vuole insistere nel sostenere che l’art. 2409 c.c. costituisca un potere impeditivo dell’evento, esso – a mente dell’ultimo comma della disposizione in esame – potrebbe trovare impulso dal Collegio sindacale unicamente per le società che facciano ricorso al capitale di rischio.

Pertanto, pur ritendo superata la responsabilità penale da mera posizione, la questione non appare di facile verifica e soluzione

Per ravvisare la responsabilità penale dei sindaci per fatti di bancarotta fraudolenta, pertanto, occorre individuare alcuni “indicatori” della volontà dolosa di concorrere nel reato, valutazione necessaria al fine di evitare di ascrivere una responsabilità penale (dolosa) a solo titolo di negligenza o derivante dalla mera posizione di controllo. Tra tali indicatori, si deve sicuramente attribuire particolare rilievo, oltre alla circostanza che i sindaci, come gli amministratori esecutivi, sono normalmente espressione del gruppo di controllo della società, anche al fatto che su di essi insita (e quindi provata) la competenza professionale piuttosto che i medesimi abbiano omesso, malgrado la situazione di crisi, o peggio di insolvenza, dell’impresa collettiva, i più semplici controlli.

Tutto ciò consente quindi di affermare che l’esistenza del potere del sindaco di attivarsi non deve essere valutata in astratto: il sindaco incorre nella responsabilità penale in esame quando in concreto avrebbe avuto il potere di intervenire in maniera differente rispetto a quanto avvenuto e, invece, non lo ha fatto.

 

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