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Italia, il paese della gastronomia.

Italia, il paese della gastronomia.

L’Italia è sicuramente se non la prima una delle due o tre potenze mondali in ambito eno-gastronomico.

Il nostro Paese forse non è primo per quantità ma lo è sicuramente per qualità e varietà.

Infatti, il nostro patrimonio gastronomico è secondo solo a quello artistico e deve, non dovrebbe, essere meglio gestito e tutelato come le iniziative del Ministro Lollobrigida sta, lodevolmente, cercando di fare anche se, probabilmente per “cattivi consigli” con strumenti e politiche demagogiche e che possono castrare l’intero nostro settore delle trasformazioni e produzione di conserve vegetali.

Infatti, le politiche di equità sociale ed economiche, volute dall’Europa e dalla Germania in primis vorrebbero utilizzare le barriere doganali come strumento protettivo.

Tale strumento, che parrebbe in prima analisi efficiente per proteggere le nostre produzioni più pregiate, si sta rivelando un boomerang in quanto l’Italia ha in realtà, o meglio dovrebbe avere, due linee di tipologie di prodotti alimentari.

La prima legata ai prodotti di eccellenza (parmigiano, prosciutto di Parma, panettone, pomodori secchi ecc.) e un secondo settore caratterizzato dall’uso di materie prime, non producibili a costi accettabili in Italia, per prodotti commerciali o destinati all’export ben distinti dai primi, in entrambi i casi assicurando sempre e comunque la massima sicurezza alimentare.

Infatti è la nostra capacità di formulare ricette eccezionalmente valide, anche con materie prime di altri paesi (i pomodori cinesi, il grano ucraino, i capperi marocchini, ecc. non sono spazzatura ma materie prime da cui ricavare prodotti sicuri ed economici richiesti per i loro prezzi contenuti o da esportare), destinate a dare delle risposte adeguate e soddisfare i mercati con pretese sulle materie prime più basse.

D’altra parte o adottiamo prodotti con dazi pari al valore della merce (come stanno facendo gli americani con le auto elettriche cinesi) oppure dobbiamo rassegnarci a tale soluzione pensando che in realtà alzare i dazi ha come unico effetto quello di regalare il mercato a paesi (Cina e Turchia in testa) che passeranno dalla produzione delle materie prime a quello dei prodotti finiti riportanti spesso l’ingannevole “italian sound”.

In entrambi i casi l’effetto è inevitabilmente quello di innalzare il costo dei prodotti, riducendo, di fatto il potere di acquisto in un momento che appare abbastanza critico e non solo a livello italiano.

Questo forse sarà il futuro in ossequio ad una finta politica di equità sociale che vorrebbe che tutti i paesi da cui riceviamo le materi prime e i semilavorati applichino le stesse politiche sociali e sindacali europee.

D’altra parte, forse, se non fossimo un pochino ipocriti, dovremmo fare lo stesso con altra materie prime che provengono allo stesso modo, e forse in modo peggiore, dallo sfruttamento dei braccianti e degli agricoltori come caffè, cacao, banane, the, ananas, ecc.

In pratica il rischio è simile a quello che si è manifestato nella moda dove in prima battuta venivano importati i tessuti ma, poi, i costi hanno portato a importare capi finiti che abbinano a costi bassissimi dei grossi problemi sia sulle sostanze tossiche o irritanti utilizzate per fabbricarli che, specialmente, per colorarli, senza esaminare minimamente le condizioni di lavoro e di sicurezza di coloro che li producono.

Ma questo, forse, non è un più problema del made in Italy, ma lo era……….

 

 

 

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