Il primo Codice di Autodisciplina del 1999
La redazione del primo Codice di Autodisciplina per le società quotate avviene nel 1999 ad opera di Borsa Italiana S.p.A.[1].
Verso la fine del 1998 si è ritenuto che esistessero in Italia molte condizioni favorevoli per riunire un Comitato che avesse l’obiettivo di elaborare un Rapporto sulla Corporate Governance delle società quotate e di redigere un Codice di Autodisciplina in materia.
In un contesto ormai mutato e fortemente influenzato a livello istituzionale ed internazionale, la competizione per l’accesso ai mercati finanziari e la minimizzazione del costo del capitale divennero fattori dipendenti anche dall’efficienza e dall’affidabilità del sistema di Corporate Governance delle imprese.
La redazione di un Codice di Autodisciplina in tema di Corporate Governance è quindi da intendersi come l’offerta alle imprese quotate italiane di uno strumento capace di rendere ancora più conveniente il loro accesso al mercato dei capitali.
Chiaramente quest’ultimo rappresenta anche un modello di organizzazione societaria adeguato a gestire il corretto controllo dei rischi d’impresa e i potenziali conflitti d’interesse, che possono interferire nei rapporti fra amministratori ed azionisti e fra maggioranze e minoranze.
Contando su questo clima favorevole, all’inizio di gennaio 1999, si creò il terreno fertile per l’adesione a un Comitato che si assumesse l’incarico, avendone competenza ed autorevolezza, di redigere un Rapporto e un Codice di Autodisciplina della Corporate Governance. [2]
Il primo Codice doveva essere uno strumento che da una parte producesse un effetto positivo sulla domanda del capitale di rischio e dall’altra parte fornisse un modello sull’assetto organizzativo e sulle norme di funzionamento che la società si è data (al Codice si aderisce su base volontaria, non obbligatoria)[3].
Esso regola specificatamente i consigli di amministrazione delle società quotate anche se risulta auspicabile che la generalità delle società italiane decida di conformarsi agli stessi principi.
Si sviluppa una concezione di Consiglio di Amministrazione che oltre alle caratteristiche funzioni di gestione vengono affidate competenze di controllo sempre più rilevanti: questa tendenza è confermata anche da tutte le successive edizioni del codice di best practice, marcando in modo sempre più netto la separazione tra chi amministra in senso stretto e chi, pur facendo parte dello stesso consiglio, ha doveri di monitoraggio e controllo (in particolare nel sistema monistico e tradizionale).
Il Codice è composto da tredici articoli: i primi dieci si riferiscono a Consiglio di Amministrazione e Comitati, l’undicesimo disciplina i rapporti tra società, investitori istituzionali e soci mentre gli ultimi due riguardano il funzionamento dell’assemblea e del collegio sindacale.
Il sistema normativo/economico italiano non aveva una consolidata tradizione di autoregolamentazione ed esso rappresentava, quindi, una significativa occasione in cui imprese, Borsa Italiana e gli investitori dimostravano coesione su un obiettivo comune.
In un’ottica internazionale, in un contesto di globalizzazione anche da parte di investitori e investimenti, le regole di best practice aiutano la Comunità Finanziaria a non penalizzare il sistema italiano in un confronto in concorrenza tra i vari sistemi. Le regole introdotte e che vengono applicate tendono ad essere in sintonia con quelle in uso negli altri Paesi determinando una forma di omologazione della governance che, da un lato, limita in modo incisivo la concorrenza tra sistemi e, dall’altro, diminuisce i costi di adattamento del sistema di amministrazione e controllo nelle ipotesi di quotazione di una società in un mercato straniero[4].
In questo senso anche il Testo Unico della Finanza (“T.U.F.” d. lgs 24 febbraio 1998 n. 58) aveva “ben preparato il terreno” per allineare l’Italia ad un contesto normativo più allineato rispetto ai mercati esteri più evoluti.
Per quanto concerne il concetto di amministratori indipendenti, “un numero adeguato di amministratori non esecutivi sono indipendenti, nel senso che:
- Non intrattengono relazioni economiche di rilevanza tale da condizionare l’autonomia di giudizio con la società, con le sue controllate, gli amministratori esecutivi, con l’azionista o gruppo di azionisti che controllano la società;
- Non sono titolari, direttamente o indirettamente, di partecipazioni azionarie di entità tali da permettere loro di esercitare il controllo sulla società, né partecipano a patti parasociali per il controllo della società stessa”[5]
Qui ritroviamo una primissima definizione (verrà rimodulata delle modifiche del codice successivamente): non viene indicato un numero minimo di amministratori (adeguato) ed i requisiti sono individuati dall’intrattenimento di rilevanti relazioni economiche e/o di controllo diretto o indiretto sulla stessa società.
Il Comitato rileva inoltre sul tema che nel caso di società ad azionariato diffuso “l’aspetto più delicato consiste nell’allineamento degli interessi degli amministratori delegati con quelli degli azionisti” mentre in società con proprietà concentrata (o comunque identificabile con un gruppo di controllo) pur persistendo la stessa problematica “emerge la necessità che alcuni amministratori siano indipendenti anche dagli azionisti di controllo” ciò al fine di permettere che il Consiglio li possa valutare con sufficiente indipendenza di giudizio nei casi di potenziale conflitto di interesse.
La qualificazione di amministratore non esecutivo come indipendente “non assume alcuna valenza né positiva né negativa, ma è semplicemente il risultato di una situazione di fatto”.
Come sottolineato in dottrina, il criterio dell’indipendenza è stato preferito a quello dell’amministratore “di minoranza”, talvolta considerato come strumento adeguato per fronteggiare il potere dei gruppi di controllo in sede di gestione, in quanto ritenuto criterio idoneo a rappresentare gli interessi dell’azionariato diffuso.
Sembra, dunque, che il Codice abbia tenuto conto di quelle istanze che additavano come populista la battaglia per l’amministratore di minoranza, che non assicurava di per sé la competenza, la funzionalità e l’autonomia del consiglio[6].
In questa direzione anche l’art. 2387 c.c. che costituisce una novità nell’ambito delle S.p.A., infatti viene introdotta la possibilità di fissare limiti positivi per l’assunzione della carica di amministratore[7]. La norma non è obbligatoria e dà la possibilità di alzare l’asticella del livello di professionalità del consiglio di amministrazione e indipendenza di giudizio è da statuto. Questo evidenzia, inoltre che i codici di autodisciplina rappresentino “un modello di riferimento della corporate governance che rappresenta la best practice verso cui tendere”[8].
Se il Codice civile, in questo caso, ha solo una previsione, la riforma del T.U.F. del 2005 introduce l’art. 147-ter comma 4, che prevede espressamente nei consigli di amministrazione con più di sette componenti, la presenza di almeno un amministratore in possesso dei requisiti di indipendenza (ex art. 148 T.U.F.).
Il Codice di Autodisciplina focalizza i principali nodi critici in materia di amministrazione e punta alla rivitalizzazione del ruolo strategico del consiglio nella sua collegialità[9] attraverso una netta ripartizione delle funzioni amministrative, sia di gestione diretta che di controllo, la previsione di flussi informativi obbligatori e procedimentalizzati e l’introduzione di amministratori indipendenti[10].
In generale, occorre sottolineare il fatto che il sistema di corporate governance suggerito dal Codice punta a perseguire l’obiettivo della massimizzazione del valore per gli azionisti.
Infatti, l’adozione di un modello di governo societario dovrebbe innescare nel lungo periodo un circolo virtuoso positivo per tutti gli stakeholders della società[11] e che gli amministratori debbano agire “perseguendo l’obiettivo prioritario della creazione di valore per gli Azionisti”.[12]
[1] “[…] opera in qualità di Società di gestione del mercato (SGM) cui sono demandate l’organizzazione e la gestione dei mercati regolamentati prevista dalla normativa.”, in Dizionario Treccani
[2] Codice di Autodisciplina del 1999, introduzione di S. PREDA. Egli è stato Presidente di Borsa Italiana S.p.A. e Presidente del Comitato di Autodisciplina sulla Corporate Governance (per questo viene definito “Codice Preda”).
[3] Così S. PREDA, Presidente del Comitato di Autodisciplina sulla Corporate Governance
[4] P. MONTALENTI, La società quotata, Padova, CEDAM, 2004 p. 20
[5] Cfr. Codice di Autodisciplina, 1999
[6] M. DE MARI, Corporate Governance e nuovo codice di autodisciplina delle società quotate, in Riv. Dir. Priv., 2003, p. 51
[7] “Lo statuto può subordinare l’assunzione della carica di amministratore al possesso di speciali requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza, anche con riferimento ai requisiti al riguardo previsti da codici di comportamento redatti da associazioni di categoria o da società di gestione di mercati regolamentati. Si applica in tal caso l’art. 2382. Resta salvo quanto previsto da leggi speciali in relazione all’esercizio di particolari attività.”, art. 2387 c.c.
[8] M. DE MARI, (nt 25), p. 541.
[9] M. BAGLIONI, G. GRASSO, Nuovo Codice di autodisciplina delle società quotate, in Società, 9/2006, 1062, ss.
[10] P. MONTALENTI, Corporate Governance, consiglio di amministrazione, sistemi di controllo interno: spunti per una riflessione, in Riv. soc., 2002, p. 814.
[11] Rapporto al Codice di Autodisciplina (2002) redatto dal COMITATO PER LA CORPORATE GOVERNANCE DELLE SOCIETÀ QUOTATE, che individuava “quale obiettivo principale di una buona Corporate Governance quello di massimizzazione del valore per gli azionisti, ritenendo che il perseguimento di tale obiettivo, in un orizzonte temporale non breve, possa innescare un circolo virtuoso, in termini di efficienza e di integrità aziendale, tale da ripercuotersi positivamente anche sugli stakeholders – quali i clienti, i consumatori, i creditori, i fornitori, i dipendenti, le comunità e l’ambiente – i cui interessi sono già tutelati nel nostro ordinamento”.
[12] Codice di Autodisciplina, 2002, Art.1. P.2